Della prima volta che abbiamo cominciato mi ricordo le tue lacrime, così simili alle gocce di soluzione che ora scendono lente nelle tue vene.
Piangevi in quel tuo modo strano che non prevede nessun suono, appoggiata alla manica del mio pile, e con le dita strappavi piccoli pezzi di carta dal fazzolettino già appallottolato e incapace di prendere altro della tua disperazione.
Disperazione stupida, avremmo capito più tardi, come solo può essere stupida la disperazione di una ragazza di sedici anni di fronte alla prima grande delusione amorosa della sua vita.
Disperazione infinitamente grande in quel momento, per chi ancora non sa niente ed ha il diritto sacrosanto di distorcere la percezione dell’importanza delle cose.
Io stavo lì, la manica bagnata e una mano sulla spalla, e recitavo la parte abusata del migliore amico che consola la ragazza della quale è sempre stato innamorato senza che lei abbia mai fatto cenno di accorgersene.
Mi spiaceva di essere così felice di averti tra le mie braccia ed ero pronto ad una lunga consolazione quando, improvvisamente ed inspiegabilmente, erano finite le lacrime ed era spuntato un mezzo sorriso.
E ancor prima che potessi interpretare cosa ciò stesse a significare quelle labbra stavano già sulle mie.
Siamo stati insieme per soli tre mesi, in quel primo inizio.
Ci siamo fatti la prima canna insieme e ci ha fatto schifo nello stesso modo.
Abbiamo festeggiato la prima notte di primavera su un argine del Po guardando l’unica stella che si era fatta spazio tra le nuvole.
Ci sono state promesse e proiezioni, sufficientemente esagerate e improbabili come si conviene a due sciocchi adolescenti innamorati.
Ci sei stata solo tu, in quei tre mesi che mi sono sembrati lunghissimi a ricordarli dopo, solo tu e sembrava non ci fosse spazio per nient’altro.
Invece c’era, ed era fuori dalla scuola, una mattina.
E tu ci hai messo poco a dire che forse stavamo sbagliando qualcosa, che io ero davvero il miglior amico che potesse immaginare di avere e che probabilmente quella dell’affetto che si trasforma in amore era davvero un’ingannevole illusione.
Non ero d’accordo, ma non ebbi validi argomenti per contrastare quella repentina fuga da me.
Ti guardai, nei giorni successivi, di nuovo felice e abbracciata a lui, conservando la mia manica per l’inevitabile occasione che sarebbe capitata.
L’occasione venne, ci furono altre lacrime a inzuppare la mia maglia, ma questa volta le labbra rimasero serrate e io, vagamente rassegnato, tornai amico consolatore.
E così rimasi fino alla fine delle superiori, quando chissà come finì anche il nostro affetto e le vite ci portarono altrove, in posti diversi.
Dopo ripensai che ci eravamo lasciati anche da amici, e senza dircelo.
Chiedo a tua sorella se può lasciare la stanza. Le dico che è stanca, di andare a prendersi un caffè.
In verità ho voglia di piangere un po’ da solo, che io quando ho gente intorno ancora mi vergogno.
Controvoglia lascia la stanza dell’ospedale, come era uscita dal bar il giorno in cui abbiamo cominciato per la seconda volta, anche allora un po’ scocciata perché aveva capito che te la volevi togliere di torno.
Mi avevi visto entrare nel locale con la faccia annoiata che avevo in quei giorni, frettoloso come sempre nelle mie pause pranzo, desideroso solo di trovare un angolo in cui stare zitto e leggere il giornale.
Mi avevi osservato mentre digitavo qualcosa sul telefonino, probabilmente un messaggio a mia moglie per dirle che non avevo tempo di andare a prendere il bimbo in palestra. Eri rimasta in silenzio per qualche minuto mentre mi sedevo e ordinavo alla cameriera.
Poi avevi attirato la mia attenzione e io, finalmente, mi ero accorto di te e ti avevo riconosciuto dopo aver messo a fuoco quella nuova pettinatura e quell’espressione che non ti avevo mai visto.
Quando mi sono seduto al tuo tavolo hai iniziato a parlare e quasi subito mi hai chiesto se ero felice, non hai aspettato la risposta, hai detto che tu, invece, non la eri per niente.
Hai raccontato di un matrimonio che diventa presto disinteresse, con pericolose e rapide virate verso l’odio. Hai detto che tuo marito era una brava persona ma tu, semplicemente, banalmente, avevi capito di non amarlo e poi di non sopportarlo.
Non avevi e non volevi figli, hai detto poi, per favore non dirmi se tu ne hai, che per oggi non ho voglia di notizie felici.
Eri nervosa e stanca, inevitabilmente cresciuta dalla ragazzina che consolavo ma ancora capace di quello sguardo di chi cerca nell’altro la conferma della sua fragilità, ora diversa e tangibile ma non meno insopportabile.
Tua sorella è ricomparsa nella vetrina mezzora dopo, facendo segno con le chiavi della macchina, e tu hai scarabocchiato il tuo numero di telefono su un foglietto e me lo hai passato, fatti vivo, ho parlato solo io, non so nemmeno come stai, e te ne sei uscita di corsa senza voltarti.
Due mesi dopo eravamo in una camera d’albergo a fissare il soffitto in silenzio dopo aver fatto l’amore.
Ero passato da amico a niente e poi ad amante in soli tre bruschi passaggi, non sapevo cosa sarebbe capitato, lasciavo che le cose andassero senza nutrire aspettative.
Quando la passione sessuale svanì, e non ci volle molto, cominciasti ad essere ossessiva, a parlare di progetti. Mi chiamavi sul lavoro, mi aspettavi fuori dalla palestra, mi cercavi a ogni ora del giorno.
Ti aggrappavi a me, terrorizzata all’idea del mio abbandono, pur cosciente della mia vile incapacità di andarmene lasciando macerie.
Così proseguimmo ancora, vedemmo un altro inizio di primavera, e poi, sorpresa, fosti tu ad andartene maledicendomi per tutto quello che ti avevo illuso e che non ti avrei saputo dare.
Rimasi zitto, ero rimasto zitto per quasi tutta la storia e non era certo il momento di iniziare a parlare, pensai che forse avevi trovato un’altra persona, mi dissi che era meglio così.
Ti guardai uscire e sparire, un’altra volta, dal mio spazio di esistenza.
Ora è quasi buio nella tua stanza.
Tua sorella è qui e ti fissa dallo stipite della porta con aria disperata. Ogni tanto passa lo sguardo su di me e ancora mi torna all’orecchio la sua voce al telefono, in quel mattino di primavera, solo tre giorni fa.
Stavo correndo in tribunale e allo squillo ho sperato che fosse la cancelleria per avvisarmi dell’annullamento dell’udienza, era invece un numero sconosciuto, il tuo, che avevo cancellato dalla rubrica quando te ne eri andata la seconda volta.
Risposi e dall’altra parte sentii una voce che non conoscevo ripetere un nome di donna, nominare un ospedale, chiedere aiuto, corri subito da lei, subito.
Prima ancora che capissi cosa stava succedendo c’è stato una fitta di dolore e mi sono fermato per respirare.
Poi, quando le parole hanno preso forma e ho capito che quel nome eri tu, sono corso in ospedale.
Tua sorella era appoggiata fuori dal Pronto Soccorso e fumava guardando il viavai della ambulanze, gli occhi asciutti, la bocca tirata.
Quando mi ha riconosciuto ha soffocato alcuni singhiozzi e mi ha messo una mano sulla spalla, nello stesso punto ti eri appoggiata tanto tempo prima, e ha iniziato a raccontare.
Mi ha raccontato del bambino, che non volevi avere e che invece stava per arrivare, e di te che avevi tirato fuori a sorpresa il mio nome che non dicevi da anni, glielo dobbiamo dire quando nascerà, chissà come sarà contento.
Mi ha raccontato del giorno in cui lo hai perso, delle urla di tuo marito stravolto dal dolore che partoriva l’odio che aveva nascosto in sé tutto quel tempo, incapace di contenerlo, tu stordita da un dolore che non aveva più spazio e ignorava la sua rabbia.
Alla fine lui se ne è andato, un addio tra persone civili come voleva lui, sentiamoci, e tu avevi confuso la libertà con la felicità.
In quei giorni parlavi di me, mi ha detto tua sorella, ma non mi avevi voluto chiamare, aspetterò il momento giusto e stavolta non me ne andrò più.
A volte, mi ha detto, ti interrogavi sulla mia vita che quando eravamo amanti ti era sembrata così normale da essere insopportabile e spesso mi detestavi per questo e con la stessa forza mi invidiavi e cercavi di capire se me la meritavo davvero, questa vita insopportabile e normale, o se fossi stato solo fortunato.
Se mi avessi chiamato avrei provato a spiegarti, a lenire il tuo male che cresceva mentre ti rendevi conto di non riuscire a ripartire, ti avrei detto che io non valgo un cazzo, sono solo uno che gli va tutto bene nella vita, che non ho meriti per quello che mi è stato regalato.
Ma non mi hai chiamato.
E’ toccato a tua sorella farlo poco dopo averti trovata per terra, nel bagno in mattonelle rosa della casa che tuo marito ti ha lasciato, il sangue attorno alle tue braccia e alle tue mani che sporcava il tappeto di ciniglia sotto il lavandino.
Sei rimasta così per cinque ore, ha detto il dottore, cinque ore nelle quali io, se non fossi stato altrove, avrei potuto cercarti, fermarti un attimo o una vita prima. Cinque ore in cui sei stata sola e ora tua sorella se ne prende la colpa perché, dice il dottore, cinque ore sono tante.
Le dico di non pensarci, che non serve a niente, ripeto che nessuno ha colpa e altre banalità che sono sempre stato bravissimo ad infilare.
Ora il tempo è fermo, non ci sono più ore, minuti, primavere.
Bisogna solo aspettare, fissare le gocce della flebo che scendono in te come le lacrime di allora e aspettare che succeda qualcosa, qualsiasi cosa, aspettare.
Oggi iniziamo per la terza volta, Ester, e questa volta non ti lascerò andare.