di Pasquale Vitagliano
Paolo Ruffilli, Un’altra vita, Fazi, 2001
Venti storie d’amore in cerca di Un’altra vita. Già nel titolo, l’ultima opera di Paolo Ruffilli è per il lettore una promessa. Storie divise in quattro stanze, scandite dal succedersi delle stagioni. Ciascuno dei racconti è dedicato ad un autore, un grande scrittore assunto più a testimone che a ispiratore di quella precisa narrazione. All’inizio ci sono le stagioni, secondo un ciclo personale che parte dall’estate e termina con la primavera, per ricominciare, si immagina, di nuovo e all’infinito. Poi ci sono gli autori, da Raymond Carver a Elsa Morante, da Franz Kafka ad Anna Maria Ortese, solo per citarne alcuni. Uno per ciascun racconto, come si è detto. Ma l’intero libro potrebbe essere dedicato a Walt Whitman. “Ricorda non temere, sii candido,/ promulga il corpo e l’anima,/ sosta un poco e procedi,/ sii copioso, temperato, casto, magnetico,/ e ciò che tu hai sparso possa allora/ tornare come le stagioni ritornano (…)”.
Paolo Ruffilli, uno dei maggiori poeti italiani, con questa coinvolgente raccolta di racconti ha promulgato la sua personale vocazione all’amore, quello puro perchè solo promesso, non ancora contagiato dalle verifiche quotidiane; quello non del tutto schiuso come una crisalide, pronto a prendere il volo ma con il rischio di essere schiacciato da imprevedibili sliding doors. “L’amore che è vissuto, l’amore che è sognato, l’amore che è trovato, l’amore che è perduto…, continuava lui a scandire, sorpreso di vederla e intanto compiaciuto. (…) Ti sorprendono ogni volta, andava mormorando con se stesso, tutte queste promesse di felicità…” (L’inverno dell’amore, dedicato ad Anna Maria Ortese).
“Amori dentro altri amori”, preannunciano queste venti straordinarie storie. In realtà, si tratta di vite dentro alte vite, perchè l’elemento che le accomuna, quasi fosse il tema centrale in un’unica e compiuta opera musicale, è quello dell’amour fou, dove l’attesa e la rivelazione finale costruiscono uno struggente dedalo di specchi attraverso il quale riflettere l’eterno scarabeo delle possibilità infrante e delle verità nascoste. Il lettore non sbircia dalla serratura queste vite. Viene invece accompagnato nella camera degli amanti. Anonimi, un lui e una lei. Come nelle camere degli alberghi, dischiuse non per pruderie, ma per farne palinsesti di un’esistenza nuova.
A causa dell’amore per la signora della porta accanto di può anche morire, o commettere un delitto, come lo ha raccontato mirabilmente il cinema di Truffaut. Le storie di Ruffilli si muovono dentro questo scenario immaginario, oscillando tra laceranti separazioni e fusioni intense e cieche. “Non si sarebbero mai più rivisti? Si era sentito di caderci dentro, al pozzo di quegli occhi spalancati. Due uccelli migratori catturati insieme e messi poi in due gabbie separate, ecco l’immagine che gli tornava in mente. Prigionieri delle vite di altri coinvolte e intrecciate con la loro. (…) (Stazione termale, dedicato ad Anton Cechov). Ma se le gabbie si aprono, non c’è più alcuna resistenza esterna alla passione. “Lei si scioglieva contro di lui. Cercava di stare immobile, in silenzio, come a resistergli. Ma non riusciva mai a opporsi e non voleva più difendersi tra le sue mani. E si sentiva trascinare, nel suo cercarla mentre la spogliava, ripetendole intanto: Zitta! Zitta! (L’inseguimento, dedicato a Dorothy Parker).
Oltre alla seducente ricerca sentimentale, Paolo Ruffilli coinvolge il lettore in un suggestivo gioco letterario alla ricerca di tracce e di rimandi capaci di svelare il legame segreto tra la narrazione e l’autore al quale il racconto è dedicato. Talvolta la chiave sta nel titolo, come L’attrito dei corpi che richiama subito la sensualità di Anais Nin, ovvero ne La locanda irlandese, che naturalmente si colloca accanto a James Joyce. Ma più spesso, come rivela lo stesso Ruffilli, il legame è un dettaglio minimo, una parola, un’espressione, una citazione. E a questo gioco ti viene voglia di partecipare, per quanto è gradevole, chiedendosi, ad esempio, perché aver dimenticato Flaubert. Mi viene in mente il racconto Un cuore semplice, l’amore della serva Felicita per Lulù, il pappagallo impagliato. Questa storia di “sublime in negativo”, sembra uscita da una delle stagioni di Ruffilli. Come nei tre racconti di Flaubert, anche Ruffilli, sceglie la “forma chiusa” perchè il vincolo di una regola obbliga a un “corpo a corpo” che ti consente di superare prove narrative difficili, come scrivere d’amore senza essere banale. “È proprio misurandoti con la legge che riesci a trasgredirla nel senso più significativo, dal punto di vista della creatività”, dice lo stesso autore.
“Perchè l’amore?, si ripeteva intanto, nel guardare. Perché temerlo? Perché evitarlo? Perché? Perchè? E il suo bisbiglio scorreva ormai nello sciacquio dell’acqua con cui la pioggia aveva inondato la città” (Padrona di casa, dedicato a Virginia Woolf). Credetemi è davvero difficile sottrarre questi perché alla lama della banalità. Ruffilli vi riesce grazie alla sua efficace combinazione tra la rigorosa fedeltà alla tradizione letteraria del racconto e la forza innovativa della scrittura poetica.
La camere degli amanti di Ruffilli non restano chiuse dentro uno sterile e biografico intimismo. Vengono invece aperte al paesaggio esterno, diventato medium di un costante e vitale dialogo interno-esterno. Non si sa mai se è il paesaggio che condiziona il protagonista, o il suo contrario. Si realizza “un incontro-scontro che fa parte del mistero di quella colossale combinazione magica che è la vita”.“Guardava a tratti il volo zigzagante di un gabbiano che distendeva nell’azzurro la curva bianca delle ali, a tratti il mare verde dove la vela bruna di una barca doppiava un peschereccio. Che tuffo!, ripeteva sorridendo. Il mistero di tutto si fa qui, più vicino agli occhi. O, almeno, così sembra…” (La locanda irlandese, dedicato a James Joyce).