Come ho già scritto in precedenti post, il televisore mi serve da sottofondo giusto a colazione e all’ora di cena: uno sguardo ai telegiornali, nemmeno troppo concentrato. I film li guardo altrove, da anni. La subcultura imperante su tutte le reti mi toglie la voglia di accenderlo per vedere le poche cose che meriterebbero. Sono però attenta alla rituale santificazione filmica delle feste comandate.
A Natale deve esserci il Piccolo Lord e a Pasqua Ben Hur, altrimenti mi preoccupo. Questa volta hanno aspettato fino al Lunedi dell’Angelo per mandarlo in onda. Sono rientrata da una passeggiata pomeridiana sotto un insperato sole, ho messo a scaldare l’acqua del té, ho cominciato a fare zapping per riflesso incondizionato ed eccolo, Giuda Ben Hur, nel cortile negletto di casa sua, di ritorno dalla galera e dalla ritrovata fortuna, pronto a prendersi la propria vendetta contro Messala su un cocchio veloce.
Ne ho guardato giusto quei dieci minuti, prima di ritornare a studiare, rassicurata dalla sua presenza, dopo aver verificato che le persiane di legno del solarium dell’attico di casa sua fossero belle come mi ricordavo. Quando una ha guardato Ben Hur una decina di volte, converrete che possa essersi accorta di particolari che sfuggono ai più.
Qualche settimana fa, al Museo del Cinema di Torino, mi sono ad un tratto resa conto che la più giovane del gruppo in gita, da cui mi separano quindici anni buoni, conosceva pochissimi titoli impressi sulle locandine d’antan e che questo ne diagnosticava senza dubbio l’età. Io invece ne conoscevo molti di più di quelli che avrei dovuto tra i vecchi mentre ignoravo parecchi di quelli più recenti ma il motivo è semplice: ho avuto la televisione calmierata fino a liceo inoltrato.
Vigeva la censura e seguiva due sole regole: poca esposizione e solo a cose che i miei avevano già visto. E fu così che, mentre rimanevo puntualmente tagliata fuori dalle conversazioni dei miei coetanei sulle battute di Indietro Tutta e sui baci del Tempo delle Mele, avevo la possibilità di partecipare, con una trentina d’anni abbondanti di ritardo, alle proiezioni degli oratori italiani del dopoguerra.
Ho versato calde lacrime davanti a Il Cucciolo e a Marcellino Pane e Vino, imparato a memoria le canzoni di Sette Spose per Sette Fratelli, sospirato romanticamente per la povera Sissi, primo, secondo e terzo episodio, preso un’imperitura cotta per Cary Grant, deciso che delle Hepburn Katherine era grandiosa e Audrey incantevole, definito i canoni di bellezza femminile da Grace Kelly in giù. Bringing up Baby mi fa ancora sogghignare, La Regina d’Egitto commuovere, Operazione Sottoveste risollevare l’umore, Scandalo a Philadelphia incuriosire sui meccanismi d’attrazione tra uomini e donne.
Molte locandine esposte al Museo erano di film di quel gran genio di Hitchcock, altro punto fermo della mia formazione cinematografica: mentre ci scambiavamo informazioni da cinefili dilettanti, ho saputo che Caccia al Ladro era basato su un romanzo di David Dodge e che una di noi l’aveva, salvato dall’oblio delle bancarelle del giallo.
Ho probabilmente visto più volte Caccia al Ladro di Ben Hur. Credo che i vestiti indossati da Grace Kelly, e il modo in cui li indossava, fossero magnifici, c’era Cary Grant quindi il film sarebbe comunque bastato a se stesso, la scena del ballo in maschera è stupenda, lo scenario della Costa Azzurra prima della mercificazione splendido e la conclusione del film sanguinaria e ironica quanto basta.
Ho finito di leggere il libro un paio di giorni fa e finalmente ho capito come faceva Roby Il Gatto a possedere un gioiellino di villa da quelle costose parti, come avesse conosciuto gli amici della Resistenza, e cosa effettivamente avessero fatto durante la Resistenza, e che pensieri passavano per la testa di Francie. Il finale è diverso ma nulla toglie né alla bellezza del film, né alla piacevolezza della trama.
A volte non è necessario leggere proprio l’ultimo best seller che ha scalato le classifiche per passare un paio d’ore piacevoli, nè liquidare un vecchio film, i cui effetti speciali erano spesso costituiti da scenari dipinti che a noi ora appaiono quasi ridicoli, pensando che non abbia proprio più niente da dire.