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Un altro piano di rinascita o politici più capaci?

Creato il 25 ottobre 2013 da Alessandro Zorco @alessandrozorco
 

L’ennesima mobilitazione organizzata mercoledì scorso a Cagliari da Cgil, Cisl e Uil riporta alla mente il famoso “Congresso del popolo sardo per la Rinascita” organizzato dalle Camere del Lavoro della Cgil nel maggio 1950. La Sardegna devastata dalla seconda guerra mondiale doveva ripartire e in quel convegno, presieduto da Emilio Lussu, iniziava la rivendicazione del Piano straordinario di Rinascita previsto dal famoso articolo 13 dello Statuto sardo, che avrebbe dovuto risollevare le sorti dell’economia isolana. La speranza era tanta in quel periodo. Si parlava di interventi per modernizzare l’agricoltura e gli allevamenti sardi, di cooperazione tra le piccole imprese, di programmazione dal basso, di decentramento e tante altre cose, belle e democratiche. La Sardegna produttiva, quella fatta di contadini e minatori, povera gente che viveva in un’isola dove mancavano le strade e dove in tante case non c’era neppure l’acqua potabile, credeva fosse arrivata finalmente l’ora della rivincita e del riscatto.

Quel Piano di Rinascita, atteso dai sardi come una manna dal cielo, si è però rivelato subito un fallimento totale. Nonostante i grandi propositi, la classe dirigente sarda non si dimostrò all’altezza della situazione, fu incapace di utilizzare quel fiume di denaro (complessivamente le risorse arrivate all’isola in quel periodo ammontarono a circa 1200 miliardi di vecchie lire). E invece di intervenire sulla bonifica e la modernizzazione delle campagne e sulla valorizzazione delle piccole imprese, i nuovi tecnocrati sardi, una classe dirigente moderata che a parole si proclamava autonomista e rivendicazionista, si fecero abbindolare dall’illusione delle grandi industrie petrolchimiche. La nascita dei grandi poli industriali di Porto Torres, Assemini e Villacidro, ben lungi dal raggiungere l’obiettivo della piena occupazione previsto dal Piano di Rinascita, portarono viceversa effetti devastanti sulla società sarda. Una “catastrofe antropologica” la definì lo storico Brigaglia.

La rinascita mancata

Emilio Lussu - Rinascita
I sardi, abbagliati dal miraggio di un posto in fabbrica, abbandonarono le campagne dell’interno, lasciate sempre più in balia dei banditi, e si riversarono nelle città costiere. Ma nessuna di quelle riforme auspicate alla vigilia del Piano di Rinascita si realizzò. La programmazione della spesa di quel fiume di denaro venne decisa altrove e purtroppo gran parte di quei soldi finirono nelle tasche delle grandi lobby industriali del periodo. Per la maggior parte quei soldi fortemente voluti dai padri dell’autonomia sarda come Lussu furono miseramente sprecati. Poi venne il secondo Piano di Rinascita, nel 1974: altri 600 miliardi che dovevano essere spesi per ovviare agli errori del precedente e intervenire finalmente sulle campagne e per le piccole e medie imprese. Poi venne addirittura anche il terzo, negli anni Ottanta. E poi ancora tanti altri soldi, statali e europei. Miliardi e miliardi di lire. Milioni e milioni di euro. Chiamati con tanti nomi: Cipe, Por, Fas.

Ma pur con tanti soldi a disposizione la politica sarda si è sempre incartata senza riuscire a risolvere i problemi infrastrutturali atavici dell’isola: ora quasi tutte le case dei sardi hanno l’acqua potabile, ma i trasporti interni e i collegamenti con la penisola sono indietro anni luce. Che sviluppo può esserci se non esiste ancora una continuità territoriale per le persone e per le merci? Se le imprese sarde sono penalizzate dagli enormi costi dei trasporti? Se è enorme la forbice tra una classe benestante che ha e può tutto mentre gran parte della popolazione è costretta a vivere sotto la soglia della povertà? L’emergenza sarda è la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani che non hanno la possibilità di programmare il loro futuro. L’emergenza sarda è una popolazione sempre più anziana che ha bisogno di essere assistita. Sono paesi interi che stanno scomparendo. Tradizioni millenarie che muoiono. Mentre gran parte della nostra classe politica, in perenne campagna elettorale, litiga per mantenere il suo pezzettino di potere personale.

L’abitudine al compromesso

Mercoledì scorso a Cagliari i segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil, Michele Carrus, Oriana Putzolu, Francesca Ticca hanno chiesto che Governo e Regione Sardegna si impegnino in una «forte programmazione di una fase di rinascita economica e sociale per difendere la struttura produttiva e creare, stabilmente, piena e buona occupazione». La richiesta finale dei sindacati è stata ancora quella: un Piano straordinario per le emergenze della Sardegna. Un Piano di Rinascita come quello previsto dall’articolo 13 dello Statuto. Ma quanto tempo è passato da quel congresso del 1950 in cui la Sardegna fremeva veramente per far avverare il suo sogno di rinascita e autonomia? Che cosa è cambiato veramente? I problemi sono rimasti praticamente gli stessi, ma nel frattempo, nel corso degli anni, tanti politici e tante altre grandi lobby economiche hanno mangiato, disperso e sprecato le risorse destinate allo sviluppo della Sardegna. Forse l’unica cosa che è cambiata veramente è la speranza dei sardi. Che oggi è completamente venuta meno. Quel sogno di rinascita è stato inghiottito dall’abitudine al compromesso e al malaffare. Sono venuti meno gli ideali, la mentalità più comune è quella del “se rubano gli altri posso rubare anche io”, del “ se si fanno accozzare gli altri sono un fesso se non lo faccio anche io”. Quel che è cambiato rispetto alla Sardegna povera di soldi ma ricca di sogni del Dopoguerra sono gli ideali: di giustizia, di equità sociale, di onestà intellettuale. Di rinascita. Probabilmente il problema della nostra regione non è quello di trovare altri soldi, ma è quello di trovare una classe dirigente onesta e capace che sia in grado di programmarli e utilizzarli bene. Ma per questo sarebbe necessario che la gente rialzi la testa per combattere disonestà e malaffare invece di piegarsi ed essere connivente perché “tanto lo fanno tutti”.  Se non cambia la mentalità comune non si può pretendere un diverso atteggiamento in chi ci governa.


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