L'anno cinematografico
che si è' appena concluso e'
stato senza ombra di dubbio il migliore possibile. Difficile stilare una
classifica di merito, o mettere in fila i titoli delle opere da
ricordare,
talmente grande e' il numero dei possibili pretendenti. Meglio e' invece
riferirsi ai dati del botteghino, di cui basterà andare a leggere
indagini e statistiche, ed ai cartelloni di festival e rassegne,
normalmente delegati alla scoperta ed alla proposta del meglio offerto
dal panorama cinematografico mondiale. Senza dimenticare il tratto
distintivo di un'annata che
ai livelli più alti ha segnato il ritorno ad un cinema che rilancia gli
elementi fondanti del suo linguaggio, e di conseguenza alla capacità
di raccontare l'urgenza di storie e personaggi avvalendosi di
sceneggiature ad orologeria e di interpretazioni barometriche.

E parlando di eccellenza non si può non cominciare dall'ultima edizione
del festival di Cannes, la 66°, una delle più belle di sempre grazie ad un concorso
che senza far gridare allo scandalo si è potuto permettere di escludere dal
palmares un film come "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino (più tardi
risarcito da una serie di prestigiosi riconoscimenti), oppure di
premiare un capolavori come "La vita di Adele" di Abdellatif Kechiche, ed "Il passato"
di Asghar Farhadi, battistrada di un manipolo di campioni
in cui a recitare la parte degli outsiders erano fuoriclasse del calibro
di Roman Polanski
e dei fratelli Cohen, artefici di opere (rispettivamente "Venus in Fur", e
"Inside Llewyin Davis") che avrebbero fatto la fortuna di
qualsiasi altra manifestazione, e che invece nella kermesse francese si
sono dovuti accontentare delle briciole. Accanto a loro in ordine
sparso, e nella
consapevolezza di non poter citare tutti, ricordiamo la fantascienza
filosofica di "Gravity" odissea spaziale firmata con un 3D spettacolare da Alfonso Cuaron, lo shock lisergico di "Only God Forgivness" del danese Winding Refn,
giubilato a Cannes ma esaltato dalla rete, e sempre per restare dalle parti di visioni al fulmicotone "Spring Breakers",
del redivivo Harmory Korine, con le baby doll Selena Gomes e
Vanessa Hudgens impegnate ad emanciparsi dal bagaglio adolescenziale che
le aveva precedute, ed a infastidire con immagini incadescenti i
frequentatori di un festival veneziano improntato alla sobrietà ed al
risparmio (anche in termini di film
selezionati, ridotti in numero considerevole dal programma di Alberto
Barbera), fino all'ultimo Tarantino, il cui "Django Unchained" ha confermato la trasversalità dell regista americano ancora una volta in grado di radunare al suo cospetto ammiratori d'ogni età.
In un panorama cosi variegato L'Italia ha fatto la sua figura: da una parte monopolizzando i vari festival con vittorie (Sacro Gra a Venezia, Tir a
Roma, ma anche il premio a Elena Cotta, migliore attrice del Lido) e
buone critiche, che hanno sancito la bonta del documentario
italiano, da anni territorio di innovazione e sperimentazione, e
finalmente assurto all'attenzione generale anche per la necessità di
ottimizzare il rapporto tra costi e ricavi.
Tra le cose più interessanti
la ricerca di nuove formule, come quella di presentare il film a
macchia di leopardo con registi ed attori impegnati in tour
promozionali a domicilio, che ha permesso di far scoprire al pubblico delle maggiori città la
bravura di nuove leve come Ciro De Caro, autore del sorprendente "Spaghetti Story",
commedia giovanilista realizzata con pochi soldi e capace di
surclassare per idee e divertimento le corrazzate messe in piedi dal
duopolio Rai/Mediaset, di Roberto Minervini, autore di "Stop the Pounding Heart",
per cui si è scomodato il nome di Terence Malik al cui ultimo cinema
quello di Minervini appare in qualche modo ispirato. Di tutt'altro
tenore il cinema proveniente dal circuito ufficiale, dove tra sorprese (La migliore offerta di Giuseppe Tornatore e Miele di Valeria Golino) e delusioni (Un giorno devi andare di Giorgio Diritti), a dominare la scena è stata la conferma milionaria di Checco Zalone, il cui "Sole a catinelle"
con oltre 50 milioni di euro d'incasso ha salvato il
bilancio dell'interno movimento. E poi, come al solito, il mix poco
ispirato di commedie e
cinepanettoni, programmati a tappeto con una distribuzione invadente e
monocorde, che ha penalizzato la visibilità dei lavori più riusciti ma
meno forti dal punto di vista promozionale. In attesa dei pezzi da
novanta della prossima stagione - da
Virzi a Moretti, passando per il ritorno di Matteo Garrone e Marco
Bellocchio- il presente offre comunque segnali incoraggianti ed un
poteziale che merita di essere valorizzato.