L'istruzione non è un processo che possa procedere per aggiunte o sottrazioni: in quanto processo va pianificato, va progettato, va configurato con gli obiettivi che si vogliono raggiungere. L'idea di fare togliere un anno di scuola, che poi vuol dire un anno di vita con un fine culturale e professionale - occasione che nella vita non si ripeterà mai più per nessuno - per risparmiare sui professori è indecente. Ed è chiaro che sono di parte, in quanto professore (professore, non prof, finiamola con queste semplificazioni-riduzioni di dignità, grazie). Ma, proprio perché sono di parte, so quante lotte dobbiamo fare giorno dopo giorno per consentire agli studenti di fare quell'anno in più, so quanti calcoli ci sono dietro molte promozioni per scongiurare la dispersione scolastica, so quanto fa bene un processo educativo fatto bene e ringrazio il cielo che io sono riuscito a completare questo percorso (e, per inciso, sono uscito dal liceo classico che non avevo ancora compiuto diciotto anni e, per la cronaca, più di vent'anni dopo, nonostante laurea, master e dottorato sono ancora precario, chissà per quanto).
Inoltre, pregherei chi espone queste idee di essere più esplicito sulle ragioni dei cosiddetti pedagogisti (italiani, signora Letta, italiani) per i quali una soluzione in merito sarebbe auspicabile. Una ragione che sia pedagogica, una ragione che faccia riferimento all'organizzazione culturale in Italia, non alle soluzioni dei paesi europei ai quali si guarda quando fa comodo; una ragione inserita in un dibattito pedagogico serio, non singole ricerche estranee all'accademia o volutamente arroccate. Abbiamo un patrimonio culturale ineguagliabile e semplicemente scegliamo di non consentire l'accesso a un numero sempre maggiore di ragazzi, salvo poi spendere soldi per campagne tappabuchi di sensibilizzazione alle nostre ricchezze culturali. Abbiamo scelto ormai da anni di esternalizzare la formazione puntando sui progetti piuttosto che sui percorsi curricolari, abbiamo tagliato la storia dell'arte e ora vogliamo tagliare un anno. E poco importa se le pubblicità-progresso non sortiscono i loro effetti, male per i musei che espongono Leonardo e Caravaggio e non scene pornografiche o ultimi ritrovati della tecnica, che cosa si aspettano dai nostri ragazzi?
La scuola non risponde più ai bisogni della società, ed è vero: ma questo accade per l'insofferenza e l'impazienza di persone senza regole e senza un minimo di dignità intellettuale, per la voglia di semplificare a ogni costo, per un buonismo scomposto e sciagurato che contraddice - e insieme conferma - l'immagine caricaturale di una severità insensata, di collegi a carattere militare e professoresse acide - ovviamente zitelle - e occhialute. Dietro ogni modello sociale c'è un progetto, c'è un'esigenza. Preferisco di gran lunga la scuola che prepara alla vita - alla sua profondità - piuttosto che una in grado di consentire l'accesso anzitempo a un mercato del lavoro asfittico che non cerca nuove forze (nuovi schiavi sì, ma nuove forze no), e anzi sembra pronto a creare nuovi eserciti di disoccupati. Poi, non sarebbe male che qualcuno facesse i conti con altre dichiarazioni (tutt'altro che datate) sulla necessità, ormai, di una seconda laurea o sulle condizioni disastrose dei ragazzi al primo anno di università e ai test. La competizione con il resto del mondo (e non con l'Europa) si basa su ciò che sappiamo fare. Se non crediamo nella scuola (come comunità, dico) aboliamo il valore legale del titolo di studio (secondo me la vera meta ideologica di queste dichiarazioni, se proprio vogliamo essere così generosi da individuarne una), ma lasciamo che chi fa scuola la possa fare insegnando e imparando al meglio.