L’Altipiano è quello di Asiago ed è il posto in cui vivo da qualche anno. Sul Monte Zebio (sui cui luoghi è ambientato gran parte del libro di Lussu) ci vado tutte le volte che ne ho la possibilità e allora posso osservare da vicino i diversi scenari narrati sulla carta.
Grazie a una speciale occasione di rilettura, legata al 150° dell’Unità, ci sono tornato e l’ho fatto con il libro di Lussu in mano (e una macchina fotografica pronta all’uso) provando a riconoscere e in qualche modo “fermare” i luoghi di certe sue descrizioni.
Emilio Lussu è stato un soldato, un patriota e poi un politico. Non so quanti sarebbero riusciti a far quel che lui fece senza macchiarsi le mani e la coscienza. Era un uomo colto, ma non era un letterato. La sua è una lingua che si colloca in modo originale nel panorama della prosa letteraria o giornalistica italiana degli ultimi anni Trenta.
Un anno sull’Altipiano ci proietta in una guerra fatta di sangue, di fango, di attese interminabili e, soprattutto, di uomini. Ci parla di umili contadini provenienti da tutte le regioni d’Italia, con il fucile in mano al posto della vanga, che lottano a fianco a fianco con fatica e in silenzio.
“Il lettore non troverà, in questo libro, né il romanzo, né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati ad un anno, fra i quattro di guerra ai quali ho preso parte”, scrive Lussu presentandolo. Il libro, infatti, attinge molto alle sue esperienze dirette e spiega come lo stesso Lussu all’inizio della guerra fosse un acceso interventista nella Brigata Sassari, tra le più temute sul fronte alpino; li chiamavano i Diavoli rossi, e ancora si chiamano così, Dimonios, per la maggior parte pastori e contadini sardi (è importante sottolineare come i sardi potevano ritenersi tra i “soci fondatori” del Regno d’Italia poiché non c’erano state battaglie per emanciparli dal dominio austriaco, non era arrivato Garibaldi a liberarli e non avevano dovuto confermare la loro appartenenza all’Italia con un plebiscito).
Nel 1916 la Brigata fu inviata sull’Altipiano per creare un fronte che resistesse a qualunque costo alla discesa degli austriaci verso Vicenza e Verona; le vittorie dei sardi nei primi scontri furono seguite da un efficace contrattacco che li vide impegnati sino al luglio dell’anno successivo, sul monte Zebio e nei pressi di Castelgomberto, in una sfiancante e sanguinosa lotta che, più che per avanzare, si conduceva per mantenere le posizioni.
Mentre salivo sullo Zebio mi sono fermato per fare delle fotografie in uno spiazzo dove ci sono alcune gallerie italiane e, davanti a queste, una piccola rupe. Su quella rupe oggi coperta di muschio un ufficiale è salito per coordinare l’assalto della truppa, nell’oscurità prima dell’alba. Su quella rupe forse era puntato il fucile di un cecchino austriaco. L’ufficiale italiano saliva e cadeva ucciso. Un altro saliva e subito stramazzava al suolo. E così via. Ho toccato con mano la roccia e ho pensato che se fossi partito militare in quegli anni forse sarei morto proprio qui. Se il coraggio può ancora essere considerato un valore, questa rupe è un punto leggendario. Se lasciar morire in quel modo degli uomini è una colpa, questo è allora un luogo disonorante, infamante. L’Italia, però, fu costruita anche in questo modo, alternando grandezze e disonori, ardimenti e mediocrità.
Nel libro di Emilio Lussu tutto questo è presente in misura copiosa. L’arroganza del potere si manifesta con l’esercizio di azioni deleterie per altri, ma strumentali ai propri fini e collegate all’impunità del proprio agire. Il superiore allora aveva totale potere di vita e di morte sui subordinati. Molti ufficiali venivano costretti alla carriera militare per tradizione familiare, ma dalla guerra non avevano nessuna soddisfazione. «Io mi difendo bevendo… contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo… il primo motore è l’alcol… uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi!» dice al giovane Lussu il tenente colonnello dell’osservatorio di Stoccareddo.
Fermo in una trincea italiana di seconda linea ho letto ancora una volta di quel generale che ordina l’assurda fucilazione di un soldato convinto che questi avesse manifestato un segno di stanchezza o di indisciplina, ma che, al contrario, aveva semplicemente eseguito quanto gli era stato ordinato («lo faccia fucilare lo stesso… in guerra la disciplina è dolorosa ma necessaria… I comandanti non si sbagliano mai e non commettono errori. Comandare significa il diritto che ha il superiore gerarchico di dare un ordine… [l'ordine] è il diritto assoluto all’altrui obbedienza»).
Emilio Lussu mette in evidenza la distanza che c’è fra quello che succedeva in realtà nelle trincee e quello che veniva propinato all’opinione pubblica, permette a chi legge di trarre le proprie conclusioni, lo “aiuta” a riflettere. Leggo che «la vita di trincea è un’inezia di fronte ad un assalto. Il dramma della guerra è l’assalto. La morte è un avvenimento normale… nella normale vita di trincea nessuno prevede la morte… ed essa arriva senza farsi annunciare…» Per Lussu è dura condurre i soldati a morte certa, incrociare il loro sguardo, sforzarsi di dar loro coraggio: «… ma quegli occhi pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono…». Come quando “il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, attraversandolo da parte a parte. E il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi chiusi, il respiro affannoso, mormorava: «Non è niente, signor tenente».”
Anche se spronato dall’amor patrio, l’istinto del soldato è in definitiva quello di sottrarsi alla morte e di darsi alla fuga. Scrive Lussu di ricordare «l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi».La narrazione impietosisce e addolora. E’ un’orazione civile per non dimenticare e, nonostante racconti fatti di quasi cento anni fa, può insegnare molte cose ancora oggi.
Presso la Lunetta Zebio, a quota 1674, ho pensato che di tutto questo non si deve incolpare l’uomo, ma, più di ogni altra cosa, la cieca brutalità della guerra. Era soprattutto questa a portare i comandanti alla pazzia, a farli impartire non solo ordini illogici, ma anche a eseguirli da soli in caso di insubordinazione. Un anno sull’Altipiano descrive gli eventi in un modo molto dettagliato: sembra quasi di vivere quei momenti, che restano incisi nella mente di chi legge. Si sperimenta la stessa paura che il protagonista ha provato nel momento in cui ha vissuto l’evento, come se non sussistesse una distanza temporale, come non ci rendessimo conto che si tratta di un ricordo certamente terribile, ma che appartiene al passato. La lettura di Lussu colpisce perché nonostante tutto spiccano l’umanità, la dignità, la capacità di sopportazione. Sull’Altipiano hanno combattuto uomini che spesso sono morti invano, per l’assurdità di un comandante inetto, impazzito o ubriaco, pagando quindi con la vita il prezzo di scelte politiche e militari irresponsabili. Ci sono stati però anche uomini che hanno dato la vita con coraggio nella convinzione che esistevano, malgrado tutto, valori e ideali superiori. Fanti, alpini, bersaglieri, granatieri, artiglieri, cavalieri, genieri, trasmettitori, carabinieri, finanzieri, soldati dei servizi logistici, dai ghiacciai dell’Adamello alle arse trincee del Carso, dal Pasubio al Monte Grappa, che hanno scritto pagine di eroismo e umanità.