La tua preparazione coinvolge musica e antropologia. Si tratta di due interessi che nascono distintamente, o hai da sempre riconosciuto un forte legame tra le due materie?
Si tratta in effetti di due interessi nati distintamente, quello musicale durante i miei studi giovanili di composizione al Conservatorio e quello antropologico durante gli studi universitari. Interessi che, a partire dalle prime esperienze sul campo in Africa e poi in un successivo dottorato, hanno cominciato a interagire e incrociarsi, tanto che le mie ricerche si sono poi svolte soprattutto nell’ambito di discipline come l’antropologia della musica e l’etnomusicologia, che costituiscono appunto una sintesi dei suddetti interessi. A parte le ricerche etnomusicologiche propriamente dette, bisogna dire che con i Baka e gli altri gruppi pigmei che ho conosciuto (popoli presso i quali la musica è un elemento fondamentale della vita quotidiana e della cultura), una certa sensibilità musicale è stata di grande aiuto, permettendomi tra l’altro, attraverso appunto il linguaggio musicale e l’uso di alcuni loro strumenti musicali, di interagire fin da subito con loro in modo più diretto e coinvolgente. Mi viene in mente un episodio significativo, a questo proposito, che ho anche raccontato nel mio libro: quando un mio amico Baka, per sbloccare una situazione delicata e difficile che si era venuta a creare in un accampamento, mi ha invitato a prendere in mano un’arpa arcuata e a eseguire uno dei brani che mi erano stati insegnati, cantando nella loro lingua. Un’esecuzione che, per quanto semplice e magari imperfetta da parte mia, ha immediatamente coinvolto tutta la comunità, che si è unita al canto, appianando i conflitti e cancellando ogni diffidenza.
Come sei giunto all’esperienza di cui parli nel libro?
Ho cominciato a viaggiare in Africa centrale quando ero ancora studente di antropologia all’Università di Torino, all’inizio il fine principale era quello di compiere ricerche su alcune culture musicali di quelle aree per la mia tesi di laurea, e poi di dottorato. Dopo una prima spedizione nel Camerun occidentale, mi sono poi spostato nelle aree della foresta pluviale, attratto dalla cultura, dalla musica e dalla vita tradizionale dei pigmei Baka. A parte questo, penso che le ragioni che mi hanno spinto ad andare e a tornare più volte dai Baka siano state anche altre: soprattutto una forte attrazione, non solo scientifica ma anche più personale, umana, per i popoli cacciatori-raccoglitori e le loro antiche culture, la loro vita tradizionale, il loro rapporto peculiare e unico con
Quali sono le attuali condizioni di vita dei pigmei Baka?
Fino a poco tempo fa, i Baka vivevano nella foresta pluviale africana piuttosto isolati, pur avendo relazioni con altri popoli (per quanto un tempo molto più limitate rispetto al presente). Oggi le cose stanno cambiando radicalmente. Purtroppo i Baka, come tutti i popoli pigmei (ma anche altri popoli delle foreste), stanno attraversando un periodo difficile e piuttosto tragico della loro esistenza. Se un tempo vivevano liberi nella foresta, come cacciatori-raccoglitori nomadi, negli ultimi decenni la deforestazione selvaggia e lo sfruttamento di queste aree (e altri fattori) li costringono a insediarsi lungo le piste che attraversano la foresta dove vivono atri popoli, coltivatori sedentari, che li impiegano come manodopera semi-schiavizzata nelle loro piantagioni (molte volte sono pagati con tabacco, vino di palma o altri distillati alcolici, rendendo molto grave il problema dell’alcolismo tra i Baka). Inoltre questi popoli (bantu) li trattano con disprezzo, spesso con razzismo, in quanto vedono i Baka come arretrati, primitivi, mentre loro si considerano molto più “evoluti”. I Baka non conoscono molto dei nostri modi di vita e della nostra cultura, se non attraverso i popoli bantu e i “bianchi” che passano o risiedono da quelle parti (dirigenti delle segherie, missionari, cacciatori, e molto più marginalmente ricercatori, come ad esempio antropologi e naturalisti).
Come si svolgeva una tua giornata “tipo” con la comunità baka?
A dire il vero non c’era una giornata tipo. La mattina ti svegli e magari qualcuno ti chiede di andare a mettere le trappole in foresta con lui, oppure un gruppo di donne ha deciso di andare a pescare in un torrente e ti viene proposto di seguirle, o ancora qualcun altro sta fabbricando un utensile o uno strumento musicale e vuole fartelo vedere. Anche le nottate sono imprevedibili, tra danze comunitarie, rituali di guarigione, e così via. Uno degli aspetti più belli e interessanti della ricerca sul campo, e soprattutto della vita con i Baka, è che in ogni momento può davvero avvenire qualsiasi cosa. Quasi nulla è prevedibile, e assai poco è programmabile.
Dalle pagine del tuo libro emerge come la foresta doni sé stessa a chi la abita, un conto che viene saldato al momento della morte di ciascuno, poiché si ritorna alla terra che ci ha nutriti…
È un’idea che emerge chiaramente dalla loro vita quotidiana e dal modo di rapportarsi al loro ambiente, la foresta, che dona loro tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere, ma che alla fine, inevitabilmente, si riprende quello che ha dato. C’è un senso di gratitudine implicita verso la foresta, nella loro cultura e nei loro comportamenti, e anche un certo fatalismo. Sono idee che ho abbracciato serenamente, per così dire, come molte altre, anche se alla fine un certo “sconvolgimento” culturale l’ho provato e continuo a provarlo… Con i Baka ho vissuto eventi e situazioni che mi hanno certamente cambiato, più di quanto mi aspettassi, che hanno modificato il mio modo di vedere le cose, la vita, e anche la nostra società.
Il contatto tra civiltà, in casi come quello dai Baka, determina sempre la scomparsa di una di esse?
Io temo che il contatto tra culture profondamente diverse, se prolungato, determini prima o poi il declino e la scomparsa di quella più “debole”, o se non altro meno aggressiva. E quando una delle due culture è la nostra, purtroppo la storia insegna che per l’altra non c’è scampo. I Baka e gli altri popoli pigmei dell’Africa centrale, purtroppo per loro, sono piuttosto aperti alla diversità culturale e curiosi nei confronti delle altre culture, oltre che estremamente remissivi e pacifici, tutte cose che li rendono vulnerabili al cambiamento culturale (che in questo caso significa scomparsa delle proprie tradizioni e dei propri saperi) e facilmente preda di soprusi e prevaricazioni da parte degli altri popoli, in particolare da quelli con cui sono costretti a convivere loro malgrado.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sud Africa… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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