È la storia di Danilo Dannoso, un uomo apatico, in crisi e in rivolta contro se stesso e contro il proprio paese – e quindi a un livello metaforico contro la propria esistenza e contro il potere – che passa le sue giornate in viaggio per conto di una fondazione di stampo politico e di un’organizzazione dedita a loschi traffici. Danilo combatte contro il suo corpo (che gli è appunto estraneo) attraverso forme compulsive di disperato autoerotismo e allo stesso tempo si sente come estraneo al corpo più grande che lo ospita, ossia la sua “vita”, intendendo con questo l’accumulo molteplice di circostanze torbide che emergono di tanto in tanto attraverso la narrazione. È insomma una creatura ai due poli dell’estraneità, ne è al contempo soggetto e oggetto. Il titolo si lascia supportare da un sottotitolo, Una tragedia on the road, che non va inteso come un rimando agli stereotipi beat o alla letteratura di viaggio, ma che va letta nel senso letterale di una disfatta in divenire.
Sono due i romanzi di giovani autori italiani usciti quest’anno e che in comune hanno il tema dell’estraneità: uno è questo, l’altro, per certi versi ancora più esplicito (ne ho parlato qui), è L’estraneo di Tommaso Giagni (Einaudi). In entrambi si raccontano le vicende di esseri asociali, apolidi dell’esistenza che corrono verso la dimensione dell’azzeramento, in entrambi i personaggi principali operano una sottrazione – che vorrei definire “scientifica” – di tutto ciò che gli orbita attorno, una rinuncia a tutte quelle cose che vengono reputate non più indispensabili, amore compreso. Sono romanzi tutti concentrati a scavare nell’interiorità di personaggi-limite, che però hanno un’ampiezza che gli consente di inglobare in un colpo d’occhio anche le miserie di un tempo spento e abietto, com’è il presente che viviamo.