Dal primo capitolo
Il rancore di Giovanni Scipioni nei confronti della sua
nemica di sempre, allo stato attuale più che mai disprezzata,
ebbe fortuita occasione di effimero sfogo un giorno,
subito dopo la fine del rientro pomeridiano delle classi.
Trovando infatti socchiusa la porta dell’ufficio della dirigente,
che sapeva essere impegnata in una riunione in un
altro plesso dell’istituto, il suo occhio fu colpito da una
macchia di un prevalente verde scuro. Erano le foglie del
ficus horribilis, funesta specie di ficus parassita che qualche
anno fa aveva messo radici nella sua scuola; esso assorbiva
il già scarso ossigeno, appena sufficiente alla vita
della nutrita popolazione scolastica, e rilasciava con sussiego
e arroganza fetida anidride carbonica, la quale,
combinandosi con il tanfo del profumo insetticida della
molesta giardiniera che l’aveva trapiantato in loco, dava
ormai allo stomaco sensibile del docente una sensazione
di torcibudella ogni volta che transitava nei pressi dell’ufficio
della maestrina. Giovanni Scipioni ebbe l’impulso,
sottile, strisciante ma irrefrenabile, di allargare lo spiraglio
concesso dalla porta semichiusa per vedere a figura
intera, vaso e sottovaso compresi, quel vegetale viziato
e reso superbo dalle amorevoli cure della sua matrigna.
Lo fissò, e sentì il bisogno di avvicinarsi ancora, di
mettere a fuoco le screziature delle sue foglie e il bruno
terriccio in cui affondavano le sue radici. Lo fissò, con
quel sentimento di avversione che anima il bambino che
abbia sorpreso nella culla il fratellino di pochi mesi, e
con quel vago desiderio di vendicarsi dei patimenti che
la sua nascita gli ha elargito, consegnandolo ai morsi della
gelosia a causa delle minori attenzioni ricevute dai genitori.
Ripensò, quasi a contrastare involontariamente
quel pensiero di facile vendetta, a quando era bambino, e
al suo gatto Nerone. Guai a chi glielo toccava, Nerone!
Una volta Antonio lo aveva allontanato con un calcio e lui
aveva punito il fratello maggiore azzannandolo e lasciandogli
impressi sul polpaccio destro i segni di una dentatura
robusta e affilata a dispetto della tenera età e dei
molari da latte, uno dei quali, a dire il vero, era scivolato
dal polpaccio indolenzito e sanguinante di Antonio e si
era adagiato sul pavimento. E guai a chi toccava i gattini
randagi del quartiere! Erano deboli e indifesi e dovevano
essere rispettati più delle altre creature! Eppure quel fi-
cus non era come quei teneri e innocenti gattini; quel ficus
era come il chihuahua grassottello e fastidioso dei vicini
snob, quelli che nemmeno salutavano perché in realtà
non camminavano sulla strada come tutti, ma fluttuavano
nell’aria come semidei in procinto di essere assunti
in cielo, nel novero dei celesti. Mordicchiava a destra e a
sinistra, quel cagnolino, e una volta aveva tentato di azzannargli
il polpaccio, proprio come lui aveva fatto, ma
per una buona causa, con il fratello Antonio. Per questo
bimbo Giovanni gli avrebbe volentieri assestato un bel
calcetto qualora fosse riuscito a sorprenderlo incustodito,
sicuro di fargli perdere aggressività e di dargli una
bella lezione, insegnandogli così come ci si comporta.
Ora, nel pieno della cosiddetta età della ragione, Giovanni
Scipioni rivedeva in quel ficus il cagnolino di tanti anni
prima. Si guardò intorno con attenzione e appurò che i
bidelli dovevano essersi trasferiti al piano superiore per
la pulizia delle aule; chiuse la porta dell’ufficio per maggiore
precauzione e sollevò il ficus, appoggiandolo sulla
sedia che si trovava di fronte alla scrivania della dirigente,
la stessa su cui Lauretta aveva patito il martirio. Si udì
quindi nel silenzio sepolcrale dell’ufficio lo scatto deciso
di una cerniera di pantaloni. Non era propriamente un
martirio, quello zampillo caldo di produzione propria
con il quale lo Scipioni irrorò le foglie e il fusto del povero
ficus, feticcio di un’umiliazione primordiale prima ancora
che volgare, tanto più che nei giorni a venire la maestrina
ebbe a compiacersi dello sviluppo rigoglioso della
sua amata pianticella, corroborata, a suo dire, dal fertilizzante
che gli aveva con generosità elargito da sempre e
che finalmente dava i suoi migliori risultati. E qualche
cortigiano della segreteria stava intorno al totem a vezzeggiare
il pollice verde della capoccia, mentre il bidello
lacchè diceva che il merito era del terriccio che lui stesso
aveva reperito in campagna, nei campi dei suoceri, e aveva
donato al tenero virgulto dirigenziale per accelerarne
il raggiungimento dell’età adulta e del pieno rigoglio delle
forme. Ma in realtà si sarebbe dovuto ringraziare l’oscuro
giardiniere, un bel giorno scopertosi tale per amore
e per vendetta.