John Donne, vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo e considerato il più rappresentativo tra i poeti inglesi metafisici, nella celebre poesia Nessun uomo è un’isola scrisse: “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Il tema che sottende tutta l’ultima opera di Wong Kar-wai, Un bacio romantico (My Blueberry Nights nella versione originale), è lo stesso che sta alla base dei versi appena proposti: l’inevitabile connessione tra tutte le vicende umane. In fondo, suggerisce il talentuoso regista cinese, ogni esperienza umana inevitabilmente ci riguarda e di conseguenza può dirci qualcosa su noi stessi. Un bacio romantico è ad ogni modo una pellicola in parte interessante, che senza dubbio ha il pregio di portare lo spettatore a riflettere su temi universali che ci riguardano tutti in quanto esseri umani, ma che certo non verrà ricordata per la sua singolarità, soffrendo in particolar modo la presenza di una sceneggiatura (scritta a quattro mani da Lawrence Block e dallo stesso Wong Kar-wai) incapace di restituire quella profondità a cui il soggetto evidentemente ambiva.
Elizabeth (Norah Jones), una ragazza reduce da una cocente delusione amorosa, conosce a New York un insolito ed interessante ristoratore (Jude Law) prima di partire da sola per un viaggio attraverso l’America. Si ferma a lavorare in diverse città e in ognuna di queste fa degli incontri che la portano a riflettere su se stessa, sulla natura del rapporto uomo/donna e dei rapporti interpersonali più in generale. Tutte le persone in cui si imbatte durante questo viaggio (sia fisico che interiore) sono personaggi soli, infelici e colmi di rimpianti: alla prima esperienza statunitense, Wong Kar-wai propone uno sguardo disincantato – anche se, aldilà della sofisticata messa in scena, non poi così originale – sugli States e i suoi abitanti, presentando una serie di uomini e di donne fragili che, come tanti altri, sembrano aver perso ogni punto di riferimento.
Tra i punti di forza del film ci sono senza dubbio le interpretazioni di tutto il cast principale, a partire dalle prove molto buone di Natalie Portman e David Strathairn (l’eccellente Edward Murrow di Good Night, and Good Luck); fino alla sorpresa legata all’esordio cinematografico della raffinata cantante Norah Jones, che dimostra di avere anche delle doti attoriali e contribuisce alla colonna sonora con il bel brano inedito The Story. I movimenti di macchina e le immagini sono a tratti ammalianti e rappresentano appieno l’ormai celebre approccio delicato e appassionato del cineasta di Hong Kong nei confronti delle vicende umane che sceglie di mettere in scena. Alcune trovate però, tanto in sede di regia quanto di scrittura, non convincono affatto. Da una parte, il ricorso costante e ripetitivo (che alla lunga stona e diviene ridondante) di riprese rallentate e leggermente scattanti – probabilmente nelle intenzioni dell’autore questo espediente tecnico avrebbe dovuto avere la funzione di sottolineare una sorta di atmosfera sospesa di tipo intimistico e riflessivo, ma alla fine ci sembra arrivi sostanzialmente ad attenuare il rapporto empatico con lo spettatore. Dall’altra, l’utilizzo di immagini simboliche che vorrebbero essere poetiche ma che si rivelano pericolosamente al confine della retorica – si pensi al ricorrente e tutto sommato banale riferimento alle chiavi e alla porta come simboli della possibilità di chiudere definitivamente un rapporto, o eventualmente di riaprirlo.
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