All’ultima riunione dell’Associazione Italiana Scrittori Contemporanei di Punta (AISCP) abbiamo trattato l’annoso tema di quale sia il modo più proficuo per inebriarsi di ispirazione narrativa, in soldoni – sempre che le case editrici ti paghino – come essere più produttivi. Qualche collega ha presentato la propria esperienza sotto la forma un po’ presuntuosa della “best practice” ma abbiamo convenuto all’unanimità che starsene a casa o in studio a scavarsi dentro non è una procedura alla lunga fruttuosa, con il rischio poi di andare su Internet fiaccati dalla frustrazione o, peggio, dalla noia e spulciare tra le tonnellate di aspiranti autori per trovare spunti degni di nota. Alcuni di noi, tra cui il sottoscritto, hanno fatto notare l’illusorietà degli stati d’animo rintracciabili sui social network che conferisce un simulacro di creatività, fiammelle che si esauriscono nel giro di due paragrafi. Ci siamo così chiesti dove siano le grandi storie, se dentro di noi ormai le risorse e la materia prima si siano esaurite dopo anni di sfruttamento intensivo. Dai più è emersa l’esigenza di uscire, abbandonare gli spazi angusti di cui si conosce ogni più piccolo anfratto e viaggiare per farsi raccontare vite altrui, esperienze distanti dai propri standard, cose che noi scrittori non potremmo nemmeno immaginare. Dopo un po’ però mi sono stufato di quelle speculazioni tra autori che si interrogano su se stessi. Mi ero messo in fondo alla stanza come a scuola ci si mette nell’ultimo banco: anche se è impossibile accendere lo smartphone – siamo sempre di meno ed è piuttosto facile che chi sta in piedi davanti al telo con le slide se ne accorga – da lì riesco a scambiare quattro chiacchiere con il collega a fianco, ci mettiamo sempre vicini e ogni volta ci diamo qualche aggiornamento sulle reciproche vite. Gli ho fatto i complimenti perché sfoggiava la solita pettinatura ma in una versione più alla moda e che diffondeva un forte profumo di cera per capelli. Mi ha confermato di aver abbandonato la coppia degli anziani parrucchieri di paese, che curiosamente si chiamano Gigi e Andrea come un duo di berluscomici d’antan, per Jessica e Nicholas, giovani hair stylist che mettono il loro estro frutto di corsi professionali post laurea triennale nell’arte delle acconciature. Mi ha detto che costano uguale ma rilasciano la fattura e poi, mentre di là si parlava solo di figa e di pesca, ora trova cose interessanti degne di approfondimento. Intanto la prima volta gli hanno fatto compilare un documento sulla privacy, che strana questa cosa per cui cani e porci ti chiedono di firmare la liberatoria non si sa bene per quale motivo. Poi la clientela è mista, e l’ultima volta ha visto una donna con un gatto gigantesco al guinzaglio. Nicholas – che malgrado il nome è italianissimo – gli ha fatto notare l’eccentricità della cosa: il gatto era di una costosissima razza americana (non chiedetemi quale, provate direttamente su Google) ma il fatto che la cliente lo portasse in giro come un cane non c’entrava con questo, non si tratta cioè di una razza che necessita di movimento e contatti con l’esterno più delle altre.
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