Un borghese piccolo piccolo

Creato il 15 marzo 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Ci sono dei film che segnano una svolta nel linguaggio e nella narrativa, che hanno il coraggio di indicare “l’alternativa”, che impongono la necessità di ricalibrare lo sguardo su un mondo che sta rapidamente cambiando. Uno di questi è Un borghese piccolo piccolo del 1977, diretto da Mario Monicelli, tratto dal libro omonimo di Vincenzo Cerami (che collaborò attivamente alla sceneggiatura assieme al mitico “poeta” del neorealismo Sergio Amidei) edito nel 1976.

Pochi film hanno descritto così spietatamente la fine delle “piacevoli “ illusioni che la commedia all’italiana portava con sé, con tutto il suo bagaglio di cinico avanspettacolo, di macchiette impomatate sul viale del tramonto, di risate evanescenti e vaporose. Un film che colpisce al cuore e allo stomaco, che celebra l’urgenza di ritornare a far parlare la crudeltà della vita, le tragiche contraddizioni di una società dilaniata e senza punti di riferimento, di un malessere interiore (come direbbe Giorgio Gaberdei mostri che abbiamo dentro”) che non può essere “curato” solo chiudendo la porta di casa, o tirandosi sugli occhi le lenzuola durante la notte.

Ancora una volta il protagonista è Alberto Sordi, ma questa volta c’è davvero poco da ridere. Interpreta magistralmente (vincendo ancora una volta il David di Donatello) Giovanni Vivaldi, timido e ossequioso impiegato ministeriale prossimo alla pensione, che tenta in tutti i modi – sobillando il suo capoufficio (Romolo Valli), umiliandosi con i colleghi, fino addirittura a diventare massone – di aiutare suo figlio (il compianto Vincenzo Crocitti) a vincere il concorso al ministero. Le sue fatiche saranno presto ripagate, ma un conflitto a fuoco appena fuori dalla sede del concorso stroncherà le sue velleità, così come la gioia di vedere suo figlio sedere al posto che il padre – fin dalla nascita – gli aveva assegnato. Afflitto da un dolore indicibile e da un trauma insaziabile, troverà nella furia cieca della vendetta l’unico modo per riorganizzare la sua esistenza. Improvvisamente, così come la morte gli ha strappato suo figlio, un padre da vittima si fa carnefice, ripagando con la stessa carta della violenza e della tortura chi gli ha sottratto ogni traccia di felicità. Nell’abominio nessuno vince ma tutti sono destinati a una tombale e irriducibile sconfitta. Non sono i personaggi che perdono ma l’essere umano in generale, ridotto senza pietà a puro e semplice burattino.

È difficile rimanere lucidi e distaccati mentre le immagini scorrono e il dramma di questo uomo medio, tipico esempio della maggioranza silenziosa, si compie senza rimedio.

Ed è questa totale assenza di speranza, di qualsivoglia traccia di umanità, di utopica salvezza, la cifra narrativa di tutto il film. Nella dipartita del canovaccio tradizionale della commedia all’italiana, del “tutto prima o poi si aggiusta”, del “ci penso io”, del “tranquilli ho un amico che può risolvere le cose”, viene annichilita ogni possibilità di redenzione. Ogni soluzione umanitaria viene annichilita all’interno di una società che non riconosce alcunché se non la cieca violenza (che ha però gravi ed oggettive radici sociali), che sopravvive a se stessa come male incurabile, per cui i soggetti sono costretti a vivere in una giungla senza via d’uscita. In questo senso la vicinanza con Detenuto in attesa di giudizio è emblematica: se lo stato di diritto abdica, se la legge non protegge gli ultimi e gli onesti allora l’unica soluzione praticabile (forse la più facile ed istintiva) è farsi giustizia da sé.

A questa totale assenza di speranza si aggiunge il trauma inenarrabile di un padre che si vede uccidere quel figlio che aveva cresciuto a sua immagine e somiglianza. Con lui muoiono tutte le sue speranze, il suo futuro, l’idea stessa della riproduzione “borghese” o meglio piccolo borghese della società, del “tale padre tale figlio”, perciò la presunta perfezione di un nucleo famigliare si mostra incommensurabile rispetto alle aberrazioni generali di un consesso umano sempre più drammaticamente avviluppato nella propria gretta mostruosità.

Quella morte sentenzia la morte stessa di un’armonia, di un equilibrio già sfibrato da tempo a cui tuttavia ci si riferiva ancora nella pietosa illusione di tornare un giorno a goderne i frutti.

Possiamo dire che questa dialettica interno-esterno (famiglia-società), incardinata nell’osmosi positivo-negativo (mio-altro), non è che la faccia complementare del grottesco sforzo di Giovanni di far vincere a tutti i costi il concorso al figlio. Qui, per un istante, si rivedono i tradizionali meccanismi della commedia dell’arte, che Monicelli sa dosare alla perfezione, con le solite maschere unte al loro posto, con la collaudata liturgia gesticolare. Tuttavia questa volta non c’è nessun lieto fine; niente tarallucci e vino. Mettetevi comodi e godetevi la discesa agli inferi. Uno sprofondamento “diabolico” che inizia fin dal concepimento di un figlio inteso come mero strumento di una propria soddisfazione, ottuso replicante di un’esistenza condannata alla mediocrità di una strada già battuta da secoli, a cui viene confezionato un futuro che non gli appartiene.

Al di là della magistrale regia di Monicelli, capace di valorizzare l’essenza psicologica e la caratterizzazione emotiva dei protagonisti (una gestualità tuttavia sempre misurata, contrita, astratta per certi versi), è degno di nota l’eccezionale, oso dire mistica, trasfigurazione psico-fisica che Sordi dona a Giovanni Vivaldi. Con un figlio morto e la moglie (Shilley Winters) impazzita dal dolore, si “improvvisa” vendicatore (civettando in salsa nostrana Paul Kersey-Charles Bronson ne Il giustiziere della notte ), usando la brutalità insensibile, l’essere “senza ritorno” della morte per esorbitare da quella morale civile che non sente più propria, nel non voler ritornare ad una “normalità” che ormai non gli appartiene più. Ed è questa la cifra più interessante: il piccolo borghese può uscire fuori dal suo anonimato e porsi come agente “rivoluzionario”, di una rivoluzione personale, intima, senza ideologia né ideali, avente come unico valore quello di una vendetta anch’essa privata, di un regolamento di conti che ha nulla a che vedere con la società, anzi la esclude ancora una volta come puntuale negazione di sé.

Ed è proprio in questo ultimo atto egocentrico, di egotismo puro e semplice, che la mostruosità che cova sotto l’apparente normalità (come non pensare all’impazzimento anarchico e liberatorio del Sig. Raab di Fassbinder) trova una sua via d’uscita, una sua forma definitiva e terrorizzante, sconvolgente proprio perché proviene da chi non ci saremmo mai aspettati, dal silenzioso vicino di casa, dall’onesto impiegato ministeriale che non ha mai dato segni di squilibrio, gentile e cortese, che saluta cordialmente con buongiorno e buonasera, ma che da un momento ad un altro, scosso dal trauma, può dare libero sfogo alla sua rabbia per troppo tempo repressa. In questo senso il quadrunvirato Sig. Raab, Paul Kersey, William “Bill” Foster e Giovanni Vivaldi funziona alla perfezione. Un borghese piccolo piccolo è, quindi, un piccolo miracolo tutto italiano in quanto preconizza con grande lucidità il pulp post moderno tarantiniano (esploso ne Le iene e che ha trovato la sua apoteosi in Kill Bill) e il delirio agrodolce, l’irrazionalità sudaticcia di Joel Schumacher di Un giorno di ordinaria follia.

L’orrore, insomma, del quotidiano, di un mondo che non può essere tenuto fuori, sospinto fuori dalla nostra pigrizia e dai nostri limitati e consunti strumenti di decifrazione, in cui siamo tutti immersi senza possibilità di fuga, di cui tutti siamo volenti o nolenti responsabili, e che trova nel neo-torturatore Vivaldi la sua stessa abdicazione come “particolarità” facendosi sistema, modo di vivere, inumanità strutturale, essenza brutale attraverso cui “regolare” i conti con il prossimo.

Claudio Vettraino


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