Un brand per creare una comunità

Da Marcofre

Adesso tu penserai che si tratti “solo” di auto-promozione. Basta utilizzare un bel termine statunitense, e siamo a cavallo del XXI secolo. No.
Si tratta di qualcosa di un po’ diverso. Cerchiamo di capirci.

Spesso si crede che promuovere se stessi (e quindi “costruire il proprio brand”) voglia dire snocciolare le proprie qualità. I successi, gli eventuali premi e via discorrendo.

Niente del genere. Proprio perché lo fanno tutti, non può funzionare. Oppure, se funziona, ci sono ottime possibilità che con te (o con me), non funzioni. Non è fatto per noi, innanzitutto. E inoltre, ricordiamoci che ciascuno di noi è differente da tutti gli altri.

E allora?

Anche nel campo dell’auto-pubblicazione c’è un grosso problema. Tutti pensano che se non dimostri di essere già famoso, se non ti innalzi su un qualche piedistallo, nessuno si accorgerà di te.

Il primo passo è definire quello che fai, e lasciar fuori quello che a tuo parere hai ottenuto.

Racconto storie

non va bene affatto, perché è generico.

Prima la storia, poi il lettore

è già meglio.

Quello che occorre analizzare, sono i propri punti di forza. Non è sufficiente.

Nel mio caso, scrivo di storie cupe, di gente che perde il lavoro, per esempio. Non che mi interessi la crisi, sono semmai interessato a vedere se la crisi alza il velo su quello che le persone sono davvero. Ovvero, la crisi come occasione per andare a conoscere la realtà.

Il buonsenso, e anche una certa “idea” di lettore, direbbe (anzi: dice) che non bisogna affatto scrivere di queste cose. Ma cercare di offrire qualcosa di allegro. O di meno serio. Un’occhiata alla classifica, e adeguarsi.

Buona fortuna a quanti ci proveranno. Sul serio. Ma non fa per me.

È necessario scovare una leva che possa attirare un po’ l’attenzione: non di molti. Di quelli giusti.

Ma tutto questo dovrebbe accadere dopo che si è dimostrato, o si è lavorato, per mostrare che non si è un imbonitore o un megafono. Ma una testa pensante. E attorno a essa si può creare una comunità.

Prima la storia, poi il lettore