Non vivo per il lavoro. Non vivo per il mio lavoro, precisamente. Il fai da tè, che sebbene un lavoro sia non è salariato, mi è cagione di ben maggiori soddisfazioni. Restaurare l’usura, resuscitare il decrepito e poi ancora creare dal nulla, riutilizzare materiali vetusti e unirli per dare vita a qualcosa di nuovo e utile. L’inusitato piacere di vedere il bello prendere forma dalle proprie mani, la libertà di fare e disfare a proprio piacimento. La quiete della mente che si esprime senza remora causata dall’altrui giudizio. Per fortuna il mio capo non ha più passione di me per il lavoro. Il negozio lo ereditò dal padre, un’attività ben avviata, roba di qualità che regge anche in periodo di crisi. Il vecchio avrebbe scambiato la nonna per uno di quei piumini di lana scozzese. Gli affari non vanno male nemmeno ora, il figlio sa il fatto suo, certo il tempo libero non lo passa in magazzino o studiando cataloghi di fornitori, come faceva il padre. Pure io non sono male. Se chiedete di me ai nostri clienti vi diranno che sono gentile e in grado di capire le loro esigenze. Solo ho qualche imbarazzo con i bambini, non lo posso negare. Vedete, ultimamente sono arrivati in negozio Montgomery per i più piccoli. Quando li dispieghi allo sguardo delle madri, le vedi lievitare sui tacchi, passerelle di alta moda si dipingono nei loro occhi. Osservate quelle cornee costrette tra due strati di mascara e vedrete il figlio sfidare i compagni di scuola con il suo Montgomery nuovo e, manco a dirlo, sconfiggerli uno ad uno, dal più straccione al più stiloso. Manna dal cielo per il negozio, non certo per me. Già, perché alla mia figura di commesso sono richieste tutte quelle domande banali al bambino che hanno l’unico scopo di circuire la madre, mentre il piccolo lo vedete, poverino, nascondersi dietro le gote rosse, asfissiato da domande a cui non può e non deve rispondere. Ma come si può chiedere ad un bambino se preferisce il papà o la mamma? Ma come si può affibbiare l’epiteto di “timidone” a chi non riesce a rispondere ad una domanda che potrebbe significare la fine dell’idillio famigliare? Io non posso, davvero, così come non posso nemmeno fare domande più intelligenti, sforzarmi di trovare un argomento pressoché nobile con cui conversare con il bambino. Come non rivedere me stesso tanti anni fa, in questo stesso negozio? Mia madre mi vestiva qui. Venivamo sempre per i saldi dopo il Natale. A volte ci serviva una commessa sulla quarantina, parlantina feroce e domande al limite della demenza. Ma tant’è, erano quesiti così idioti che non necessitavano risposta. Diverso era quando ci serviva il vecchio, quello che avrebbe venduto la nonna per uno dei suoi piumini. Costei non era mai banale, le sue richieste esigevano una risposta. Diversamente dalla querula commessa, lui le attendeva in silenzio. Occhi esigenti e severi si moltiplicavano, li sentivo graffiare la mia tenera pelle di bimbo. Ancora oggi, quando vedo quei bambini attorno ai Montgomery, sento la stessa oppressione, la pelle d’oca nella schiena e la saliva azzerata, ecco il vecchio squadrarmi con la ghigna sprezzante del commerciante self-made. Come non rendersi conto di quanto stia soppesando la mia inettitudine al mercato globale della vita? E mia madre, povera donna, si volta e mi guarda implorante “Su piccolo, rispondi. No, mi raccomando, questo non me lo devi fare, ho appena detto a tutti quanto sei intelligente. E educato. E affettuoso.” Allora le parole mi sgorgano dalla bocca e sembrano melma più che acqua e vedo le labbra di mia madre tremare nel tentativo di suggerirmi la risposta. Lasciate stare i Montgomery. Costano più di quel che valgono. Più della fiducia che non avete per i vostri bambini.
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