Un destino segnato.

Creato il 05 luglio 2011 da Enricobo2
Quando passi la giornata con un vecchio amico è inevitabile che si crei la nota sindrome del commilitone, così dopo un po' è tutto un "Ti ricordi di quella volta che..." con risate e lazzi alle spalle di vecchi conoscenti. Basta che il discorso non scivoli su quelli morti e la giornata può finire in gloria. Tuttavia in qualche caso è davvero l'occasione per ritirare fuori qualche fatto divertente pescato tra le storie personali che ognuno di noi ha maturato. Siccome a me piace proprio raccontare le storie, eccovene qua una, bella, cotta e mangiata. Tanto per cambiare erano i soliti anni della morte dell'URSS e Mosca manteneva il suo fascino tenebroso di fioche luci e di sospettosa inefficienza. In ufficio si era deciso il colpo di testa, Dopo anni di onorato servizio la Zhigulì blu (la versione russa della Fiat 1100 che si faceva a Togliatti) doveva essere accompagnata da una compagna di prestigio che mostrasse al volgo la potenza aziendale. La scelta cadde su una lussuosa Tempra (Italia über alles) che si ordinò direttamente in Finlandia. Quando ne fu annunciato l'arrivo, l'inverno russo era ormai nel suo pieno vigore, anche se la temperatura, forse grazie all'aiuto di Cernobil, vagolava attorno allo zero. Nel crepuscolo fané del primo pomeriggio, si trattava di tentarne lo sdoganamento. E qui veniva buona la fida Zhigulì che caricata la pattuglia di prodi determinati a tornare vivi o morti con la nuova macchina, partì sbuffando alla volta dello scalo ferroviario in cui, amici di amici (questa era la sola via per avere informazioni concrete) avevano assicurato stazionare i vagoni in arrivo dalla Scandinavia.
Gli schizzi di fanghiglia e di neve nera coprivano buona parte del blu elettrico del mezzo rendendola particolarmente mimetizzata, cosa che consentì senza blocchi o incidenti di guadagnare l'immenso scalo merci moscovita di una delle stazioni del Nord. Era ormai buio e i fiochi lampioni male illuminavano gli spazi deserti tra l'infinita sequenza di binari, popolati solo da ammassi di materiali di epoche incerte, coperti di neve che giacevano in un sonno eterno. In seguito a notizie credibili, si cercava una casa rossa popolata di doganieri, presso la quale forse, stazionava il nostro vagone. Comparve infine in lontananza, dietro una infinita sequenza di treni morti, cadaveri arrugginiti che ricoprivano l'impero agonizzante, ma ancora letargicamente attaccato alla vita. Un lungo rettilineo vi conduceva tra grandi pozzanghere che occupavano per intero la carreggiata e fumi corrosivi che ammorbavano l'aria, nascondendola a tratti alla vista. La macchina sballonzolava molto seguendo le irregolarità del terreno, così si decise di seguire per vie centrali, tagliando gli strati sottili di neve e le fragili croste di ghiaccio che coprivano gli avvallamenti, per non rischiare di finire in qualche fosso. Zhenija, profondo conoscitore della dimensione sovietica si era assunto il ruolo di capo comitiva e con grandi gesti indicava la rotta da seguire, di qua, di là, attenzione a quel mucchio di terra. Infine, davanti ad una enorme lago nero, traguardò la sagoma della casa rossa che pareva scomparire tra i vapori e decise d'istinto, sempre diritti fino alla meta.
Dopo pochi metri la piatta superficie che crepitava sotto gli pneumatici invernali, ebbe come un rigurgito e la voragine si aprì inattesa come le profondità dell'Averno. Una colossale buca, profonda almeno un metro, protese le braccia a ghermire la preda che inabissò la prora gorgogliando, com'altrui piacque. Ferox riuscì ad aprire la portiera, ma fu salvo anche Zhenija che pure aveva spaccato il parabrezza con la testa e sanguinava copiosamente, mentre continuava a ripetere chioccio: "Prego la scusa, prego la scusa". Più o meno zuppo, l'equipaggio constò che una delle traversine con cui maldestramente era stato riempita la trappola vietcong, era entrata nel motore. Ma altro di più importante incombeva, ed erano già le quattro, quindi Zhenija, ferito certo, ma comunque colpevole confesso, venne lasciato a guardia del relitto al fine di evitare che qualcuno, invocando la legge del mare, si approppriasse quantomeno di parti di esso per trarne i preziosi e ricercatissimi ricambi. La compagnia stazzonata ma decisa, guadagnò la ridotta dei doganieri. Nel gelido stanzone, vegetavano forse già da tempo come nella barzellette, un americano, tipico red neck dall'occhio bovide, in evidente rassegnazione ed un giapponese, dall'aria impenetrabile che rimaneva seduto sulla pancaccia sbilenca, senza appoggiare la schiena al muro che aveva visto l'ultima mano di pittura in epoca zarista. Il doganiere, un rubizzo milite dallo sguardo svogliato, continuava probabilmente da ore a riempire moduli, che timbrava di tanto in tanto con gesto meccanico. Non una parola fu pronunciata. Ognuno sapeva bene il gioco delle parti che lo attendava e lo svolgeva senza accidia. Fu aperto il vagone, purtroppo la Tempra, lucido gioiello svavillante, era la terza. Fu liquidata prima la CIA, che scomparì nella notte ormai scura, a celare i misteri da cui era venuto, poi venne data soddisfazione al Sol Levante.
Una black rain sottile e malevola lo accompagnò sulla Toyota bianco già sporco uniformandolo subito allo sfondo. Il diamante tecnologico, la perla di design italico, l'oggetto del desiderio scese lentamente e con attenzione la linea di scarico. Il doganiere, distrutto dalla giornata di lavoro, si accasciò sulla panca, alzò lo sguardo stanco alla parete dove troneggiava un grande orologio e una scintilla di piacere percorse le sue membra corpulente. Con un leggero sorriso si girò e disse: "Sono le sei, tornate domani". Un fremito di scoramento attraversò la truppa, sconvolta non già dall'incidente e dagli eventi, ma dall'impossibilità di abbandonare, motorizzati, il campo di battaglia. Ferox cominciò un lungo lavoro ai fianchi; l'esperienza e tutte le tecniche acquisite in lunghi anni di lotte nei meandri della burocrazia sovietica lo avevano rotto a tutte le situazioni. Infine il fortilizio nemico crollò e si dichiarò disposto a sdoganare il mezzo a patto di essere accompagnato a casa. Detto fatto, in pochi minuti le carte saltarono fuori debitamente coperte di bolli rossi tondi, quelli che contano e finalmente con grande cura e seguendo stavolta le indicazioni della guida sicura del prigioniero, la Tempra, debitamente alimentata con la tanichetta di benza portata al seguito e salvata dal bagagliaio della Zhigulì, lasciò lo scalo nella notte buia e tempestosa, dopo aver prelevato anche Zhenija che si era deciso, magnanimamente, di non lasciare, anche se colpevole, tutta la notte a guardia del bidone.
Ne fu riconoscente per anni. Il milite però aveva gabbato tutti, in realtà stava a Ostankino o altra località desolata fuori Mosca. La compagnia comunque vincitrice, guadagnò le brande nel casermaggio verso l'una di notte. Il giorno dopo fu recuperata la Zhigulì e rimessa amorevolmente in ordine. Lo stesso Zhenija per premio chiese il permesso di usarla per andare alla domenica al matrimonio di un suo lontano cugino. Il prestigio di presentarsi con la macchina aziendale, non aveva pari a quel tempo. Appena fuori Mosca sbagliò strada, fece un разворот, la vietatissima inversione ad U e il misto tra imperizia e fondo scivoloso condusse la bella e fedele auto blu a schiantarsi con la fiancata contro un palo della luce fino ad abbracciarlo completamente. Così essa, il cui destino era evidentemente segnato, anche senza tentare di fuggire a Samarcanda, terminò i suoi giorni malinconicamente, ritirata dall'Ingostrakh, l'assicuratrice sovietica che tra l'altro la strapagò. A Zhenija da quel momento fu inibito di toccare anche solo per sbaglio, il volante della Tempra.
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