Non solo con la lingua, però. In quetsi giorni mi è capitato tra le mani il suo Amici (Bur Rizzoli), libro che racchiude storie e incontri di un uomo che seppe mantenersi fedele alle sue amicizie. E' una straordinaria carrellata di artisti e intellettuali che animarono la Firenze degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, da Elio Vittorini a Mario Luzi, da Mino Maccari a Ottone Rosai.
Ma il personaggio più straordinario - meriterebbe un romanzo - non ha un nome e un posto nella storia della nostra cultura. Era un marchese spagnolo - un nobile decaduto che fa tanto Don Chisciotte - che nella Firenze della guerra, per risparmiare, mangiava in una trattoria di quart'ordine frequentata anche dai membri della Resistenza in clandestinità. Aria di grande di Spagna che non riesce a persuadersi alla sua decadenza, poeta molto convinto delle sue liriche dalla scarsa fortuna, era uno che parlava così: "Che era, Bilenchi, quella guapa signora bionda che paseava con voi?", "Era mia moglie, signor marchese".
Era un uomo da ancien règime, un aristocratico che vedeva rosso, un romantico reazionario. Un giorno nella trattoria piombarono i nazisti. Sarebbe bastato pochissimo per un arresto di massa, nella rete stava per cadere anche il futuro sindaco di Firenze.
Il marchese si levò in piedi e affrontò un ufficiale nazista, ubriaco e dispsoto al peggio: "Voi nazisti siete il disonore di tutta la terra, di tutti gli eserciti. Siete bestie selvagge". E da solo cacciò tutti fuori. Scrive Bilenchi:
Divenne per un istante uno di quei guerrieri spagnoli dei quali parlava spesso, uno dei suoi antenati, un hidalgo, un cittadino del mondo
Si dice che dopo la guerra, completamente rovinato, il marchese sia tornato a Siviglia, dove campava come rappresentante di una ditta di motorette. Morì di pomeriggio, in un caffè. Era un hidalgo, era un cittadino del mondo.