È praticamente impossibile non riconoscere le vestigia del buon vecchio Drugo sotto le spoglie di Bad Blake, incanutito cantante country alla deriva tra una bettola e una sala da biliardo dopo i fasti di una popolarità oramai irreversibilmente sbiadita. Attaccate al chiodo infradito, bermuda e l'inseparabile accappatoio, il Big Lebowski dei bei tempi andati pare qui aver ripiegato in funzione d'un paio di stivali da cowboy e uno Stetson a falde larghe per ritornare - chitarra a tracolla e bottiglia di bourbon sempre in tasca - nuovamente protagonista di un film incentrato sulla sua claudicante figura: stiamo parlando di Crazy heart (2009, esordio alla regia per Scott Cooper), film a basso budget (comunque 7 milioni di dollari, da noi buoni a tirar su almeno tre lungometraggi con Checco Zalone) che oltreoceano ha raccolto una fiumata di riconoscimenti importanti: Golden Globe, Free Spirit Awards, Screen Actors Awards e infine, meritatissimo, l'Oscar per la miglior interpretazione maschile che non a caso coincide con quella del mitico The Dude del cult dei Coen: lui è Jeff Bridges, una volta di più splendido looser in celluloide e per l'occasione anche produttore.
Crazy heart però è anche un film sulla musica, e Bridges suona e (in)canta davvero le canzoni scritte da T Bone Burnett, Stephen Bruton e Ryam Bingham. Imbraccia il suo strumento per mettere a fuoco con mestiere un bel personaggio malinconico cui fa da spalla un cast stellare (da Robert Duvall a Colin Farrell a Maggie Gyllenhaal), ma è sulla bravura e sulla fisicità dell'attore protagonista che si regge l'intero corpo del film, capace di rendere plausibile un personaggio perennemente rapito da quella musica struggente e traditrice che è la vita stessa. E se nella prima parte dell'opera è ovvio captare echi alcolici d'un maledettismo facile alla Barfly (senza però traccia alcuna della a tratti insopportabile spavalderia bukowskiana), da un certo punto in poi il film si tramuta in una sorta di commovente elegia che pure, peraltro, sempre a Mickey Rourke riconduce (che di quel film di Barbet Shroeder del 1987 era l'interprete principale). Bad Black infatti, smessa l'iniziale maschera del disincanto da star in malora, ben presto si mostra per quell'Eroe Acciaccato qual'è, una figura fondante di quella fetta considerevole della cultura americana basata sul mito della Rivalsa e della Redenzione che l'anno prima aveva trovato il suo più riuscito (e moderno) istrione proprio in quel Randy «The Ram» impersonato da un Rourke ai massimi storici nel capolavoro The Wrestler. Sempre ostinatamente ubriaco, pronto a dar di stomaco sul palco o svenuto nel cesso d'un motel, Bridges impersona una variante canterina e convincente della vecchia gloria sull'orlo dell'abisso. L'incontro con una giornalista di provincia che ha un bimbo dell'età del suo quando lo abbandonò, e la riconoscente amicizia - dura da digerire - dell'ex pupillo diventato una star, impediscono la distruttiva deriva tragica tipica di biografie come questa: genere cinematografico tutt'altro che originale eppure ancora capace di regalarci emozioni. Deludente solo il finale, con lei che si ripresenta con l'anello al dito quasi a sottolineare che ancora oggi, nel XXI° secolo, l'importante è che una donna non rimanga zitella. Però l'atmosfera è quella giusta e i cieli densi di nuvole fioccose del Texas fanno il resto. Robert Duvall è l'amico stagionato con cui chiunque affronterebbe il proprio crepuscolo e Colin Farrell funge da egregia spalla - anche canora - al 61enne Jeff Bridges, che sbevazza e soffre in maniera spettacolare. Tratto dal libro di Thomas Cobb.