Quasi amici – Intouchables, Canale 5, ore 21,10.
Quasi amici (Intouchables), di Éric Toledano e Olivier Nakache. Con François Cluzet e Omar Sy.
430 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, il film non americano di maggior successo di tutti i tempi. Di fronte a numeri così, viene da chiedersi cos’abbia trasformato Intouchables (meglio il titolo originale, quello italiano è moscio) in un fenomeno. La storia semplice e insieme irresistibile, prima di tutto, quella di un ricco parigino paraplegico e del suo badante senegalese venuto dalla banlieu. Strana coppia, impossibile coppia, ma il cinema e le grandi narrazioni ci hanno insegnato che gli opposti producono spettacolo: a saperlo fare (e qui registi e sceneggiatori ci sanno fare). Ci si diverte e commuove a questa commedia che non ha ipocrisie e pietismi verso la disabilità, ma che la tratta rispettosamente a muso duro. E il film intercetta le ossessioni dell’europeo contemporaneo, le sue paure dell’immigrato invasore, esorcizzandole in una storia rassicurante. Non so se sia un grande film, certo è un film epocale, qualcosa che somiglia alla costruzione di un mito.
I numeri fanno impressione. 430 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, che fanno di Quasi amici (Intouchables) il film non americano di maggior successo commerciale di tutti i tempi. In Italia Quasi amici ha raggiunto il primo posto al box office, dopo una marcia di quattro settimane che l’aveva visto a ogni weekend mantenere costante l’incasso di un milione e mezzo di euro, mentre di solito i film fanno il botto la prima settimana e poi si inabissano. Segno, questa progressione diesel, di un successo che si è consolidato strada facendo e dovuto al passaparola (si potrà trovare un’espressione migliore? però, please, non mi si proponga l’orrido e fighetto marketing virale), anche perché il lancio da noi non è stato proprio eclatante, e la solita critica sussiegosa non ha dato a Quasi amici lo spazio che si meritava. I milioni di euro incamerati da noi sono qualcosa di eccezionale per un film francese, genere che in Italia non paga quasi mai. Si vedano gli incassi del pompatissimo The Artist, molto, molto più strombazzato di Quasi amici, che sono dignitosi ma non stellari. Ora, di fronte a un fenomeno di queste dimensioni c’è poco da fare i critici che stanno a misurare col bilancino meriti e demeriti, o a valutare il tasso di artisticità (ma che sarà mai?), qui sarà il caso di farsi invece qualche domanda e darsi qualche risposta su come sia potuto accadere. Bando all’estetica e all’esegesi critica, largo invece ad altro genere di considerazioni e pesi. Intanto, che il distributore italiano si vergogni di un titolo così brutto, moscio e anonimo che non rende conto né dell’efficace, perfetto originale Intouchables, né della storia che il film racconta. D’accordo, forse (forse) non lo si poteva chiamare Intoccabili perché con quel titolo esistevano già almeno due film, uno di Giuliano Montaldo del 1969 e l’altro, famosissimo, di Brian De Palma del 1987 (Oscar a Sean Connery), ma si poteva mantenere l’originale, o, se proprio lo si doveva tradurre, almeno chiamarlo qualcosa come Gli impuniti, che rende meglio l’idea. Ma il film è di una tale forza che si è fatto largo nonostante il lancio mediocre e il titolo disgraziato. Dico subito che a me è piaciuto molto, moltissimo. Intorno a me, quando sono andato a vederlo, gente che rideva e molti che piangevano. Non capita poi spesso che un film arrivi, per dirla alla Ventura Simona ai tempi di X Factor, e che arrivi in questa misura. Non so se sia un grande film, probabile che no, però è qualcosa di diverso e anche di più di un bel film, è un film epocale, di quelli che spostano le montagne e forse le coscienze e incidono sul sentire collettivo e sulle percezioni e i valori più di milioni di prediche, inchieste giornalistiche, dibattiti televisivi e no, campagne sui social network, giornate celebrative di questo o quello, perché io sono tra coloro che pensano che il cinema può davvero cambiare qualcosa, mica da solo, certo, ma se inserito come parte di un tutto comunicativo che va dagli scambi di opinione alla macchinetta del caffé alle news consumate sul divano di casa, sì che può. Qui siamo di fronte a una storia che si fa parabola esemplare, che intercetta paranoie, paure, ossessioni, ansie ma anche speranze e voglie del presente, del qui e ora di questa nostra acciaccata Europa, che le intercetta e poi le rimastica, le rielabora, le struttura in una narrazione e ce le serve egregiamente. Usando archetipi vecchi e facendoceli sembrare nuovi, tirandoli a lucido con sapienza artigianale e anche con una certa ruffianeria da venditori e imbonitori che sanno il mestiere loro. La storia la sapete, la sappiamo. O no? Philippe è un ricco signore parigino (come sia diventato ricco non si sa, ma abita in una magione in città di abbagliante raffinatezza, sontuosità e regalità), vedovo, che dopo un incidente di parapendio – era una giornata scura e tempestosa – è rimasto tetraplegico, con più niente che si muova e senta dal collo in giù. I badanti resistono una settimana o due, poi scappano, perché occuparsi di un tizio così – spostarlo, lavarlo, nutrirlo e fargli pure il clistere – mica è facile, si deve stare all’erta 24 ore su 24, che poi il signor Philippe ha pure il carattere suo, sa signora mia. La fedele segretaria e la governante che presiede all’andamento del palazzo così si ritrovano spesso a organizzare un casting per trovare il nuovo assistente. A uno di questi colloqui collettivi si presenta anche Driss, ragazzone di banlieu di origine senegalese, svelto di parola e anche di mano – si è fatto un bel po’ di galera per rapina – che di fare quel lavoro non ha nessuna intenzione, gli serve solo che il signor Philippe o chi per esso firmi e attesti che lui si è presentato al colloquio per continuare a percepire il sussidio di disoccupazione (è la burocrazia del welfare, bellezza). Invece sarà lui il prescelto. Quella sua strafottenza è piaciuta assai a Monsieur Philippe il quale non vuole condiscendenza, non cerca comprensione o solidarietà o pietà, aborre i buoni sentimenti e le ipocrisie dei vari assistentati sociali e dei loro accoliti perbenino, e vuole essere trattato per quello che è. Cioè per uno malato, immobile, handicappato. Anche la durezza è meglio del pietismo, dunque che Driss, così sguaiato e ineducato, sia l’eletto. Storia ispirata, così dicono i titoli di coda, a quella vera dell’aristocratico corso Philippe Pozzo di Borgo e del suo badante, il tunisino Abdel Sellou. Non ho letto l’autobiografia del nobile di Borgo, ma a occhio mi pare che il film si discosti parecchio e si prenda molte libertà. Non solo perché il maghrebino Abdel qui diventa il senegalese Driss, ma perché alcune situazioni paiono francamente dilatate. Siamo nella più classica commedia degli opposti, due caratteri che più diversi non possono essere, la strana coppia che per forza deve convivere con tutti i malintesi e i battibecchi e i micro-macro conflitti che si generano. Il bianco e il nero, il ricco e il povero, il borghese e il lumpenproletario, il colto e l’ignorante, il debole e il forte, il malato e il sano, l’europeo e l’africano, l’uomo del nord del mondo e l’uomo del sud del mondo. Ecco, Intouchables prende tutte queste coppie di opposti e le incarna e le cortocircuita nel mirabile e paradigmatico duo Philippe/Driss, scatenando una narrazione irresistibile, così perfetta da porsi come racconto esemplare e qualcosa che già assomiglia a un mito contemporaneo (chi l’ha detto che solo i tempi arcaici potevano produrre miti? Ci fossero ancora Mircea Eliade e Roland Barthes forse su Intouchables potremmo leggere davvero qualcosa di bello e penetrante). All’inizio i due faticheranno a coabitare e a tollerarsi, poi impareranno a rispettarsi, forse anche a volersi bene (questo è l’aspetto più sotterraneo e segreto del film, che pure fa dell’estroversione uno dei suoi registri e sembra tutto esplicitare e gridare). Driss incomincerà a restare affascinato da quell’uomo colto che lo sta introducendo a un mondo ignoto – l’arte, la musica, la bellezza, la cultura nel senso proprio del canone occidentale alla Bloom – e anche agli agi, mentre Philippe di quel rozzo giovane uomo venuto dalla banlieu, e da ancora più lontano, amerà la sincerità, l’autorevolezza fisica e corporale, la forza e l’astuzia, e una umanità per così dire naturale e primaria. Soprattutto, ne apprezzerà la mancanza totale di condiscendenza e ipocrisia nei suoi confronti. Non c’è pietismo in Driss, semmai pietas. Questa commedia tratta la disabilità con sguardo fermissimo e senza il minimo cedimento sentimentale e politically correct, Driss fa battute e battutacce su quell’uomo che non può muoversi, sul suo corpo degradato, ma lo fa sentire ancora vivo, ancora umano, almeno capace di cogliere qualcosa del vivere, portandolo a folle velocità nella notte sulla Maserati, o trasformando la sua carrozzina di disabile in giocattolo da corsa, e accompagnandolo in un bordello dove sapienti mani orientali gli facciano il massaggio giusto all’orecchio che, ebbene sì, se ben solleticato e sollecitato, è ancora in grado di trasmettere qualche brivido a Philippe. Ve lo immaginate un film italiano con un tetraplegico e il suo badante che vanno insieme a puttane? (forse ai tempi di Risi, Ferreri e Tognazzi, forse). Ecco, questo dà la misura dell’immensa novità e forza di questo film più di ogni spiegazione. Naturalmente tra i due sarà scambio. Se Driss resterà basito e non potrà non sghignazzare all’Opera vedendo un uomo cantare in tedesco vestito da albero (il Freischütz di Weber, I suppose) o ascoltando il concerto a palazzo di un ensemble da camera, Philippe verrà introdotto da Driss al rap e agli adorati Earth, Wind and Fire. E, in questo scambio che è anche continua sfida reciproca, Driss dovrà pure buttarsi un giorno col parapendio. Si ride moltissimo. Driss è sguaiato e volgare, ma non gli si può resistere, non ce n’è, grazie anche a un attore che di nome fa Omar Sy e che si è fatto largo nel mondo dei comici immigrati. Così bravo, Sy, da aver portato via il mese scorso il César addirittura a quel Jean Dujardin di The Artist che di lì a un paio di giorni avrebbe vinto l’Oscar (giusto così: Intouchables è assai meglio di The Artist, non c’è gara). Certo, il film è al fondo, nonostante l’apparente tono oltraggioso e smargiasso, di grande bontà, e perfino edificante. In fondo, ci dice che tra diversi la coabitazione è possibile e auspicabile, che tra mondi lontani non è detto ci debba essere sempre scontro di civiltà, ma ci stanno anche l’incontro e la compenetrazione. Prende quelle che sono le ossessioni dell’everyman francese e bianco-europeo di oggi, la paura dell’immigrato e dell’altro, e le esorcizza attraverso questa sacra rappresentazione (sacra perché ha l’esemplarità e la didascalicità del rito), e le depotenzia, le devia, le sublima, quelle ossessioni. Ma c’è molto altro, in questo film epocale. C’è la messa in scena, chissà quanto consapevole, della debolezza europea a fronte della rampante, forse inarrestabile forza extraeuropea dei popoli giovani e belli e forti. Intouchables allora sarebbe una sorta di spengleriana riflessione sul tramonto dell’Occidente in forma di commedia e burla, dove l’europeo si arrende e si mette nelle mani dell’altro che viene da lontano e che ha ancora quell’energia che lui ha invece irrimediabilmente perso. Gli si arrende, e gli consegna il proprio corpo sfibrato. Ma in questo film-mondo, in questo film-epoca, c’è altro ancora, e ancora, e ancora, c’è l’eterna dialettica servo-padrone (uscito in un momento in cui cinema e tv di servi e padroni ne hanno messi in scena molti, da The Help a Downton Abbey a Les adieux à la Reine), qui nella sua variante tutta maschile, e di complicità maschile, sul modello Don Giovanni-Leporello. Sicchè, oltre al Vivaldi e Weber che sentiamo eseguire in qualche scena, in questo film c’è anche qualcosa, anzi parecchio, di mozartiano.