Si balla come a chiedersi che farsene del proprio corpo, che ne è stato del proprio peso. Si danza di fronte agli altri, nell'orgia gioiosa della scoperta del mondo, e alla presenza oscura di un pubblico e di sé stessi, come il Minotauro di Dürrenmatt, si danza perché non se ne può fare a meno. Si danza al cospetto della propria oltraggiosa solitudine di quel ballerino che può dimenticare di guardare e d'essere guardato, come se fosse la stessa cosa. Si danza la propria arroganza d'uomo che tutto vuole e tutto crede di potere, si danzano i propri limiti, si danza la propria felicità, la propria anima spaurita e timida. Si danza, come dice Pina Bausch, si deve danzare, o si è perduti.
Aspettavo da tempo di vedere Pina (2011). Io, che non capisco nulla di danza, io che non la sento davvero e non ne conosco i confini, i generi, le figure, io che adoro il teatro ancestrale di Pina Bausch e gli scorci fuggevoli di Café Müller in Parla con lei di Almodóvar, davanti a un uomo solo che piange. E proprio lo spazio desolato di un caffè invaso da sedie senza avventori che si seggono, da tavolini in perenne attesa di conversazioni che non si svolgeranno mai, dalla cecità dolorosissima dell'uomo per la donna e della donna per l'uomo, c'è una parte di me. Forse non dovrei parlare di questo film di Wim Wenders: sono parziale, sleale. Io, che non ho niente per mantenere l'equilibrio, io che non ho mai abbastanza terreno sotto i piedi, né distanza tra me e il cielo e le nuvole sopra il mio capo, ricevo una torsione spastica al ricordo di quei corpi che cadono.
Per altri versi, tolti gli spezzoni dell'artista, non c'è aspetto di questo film di Wim Wenders che non mi susciti per lo meno perplessità. A partire dalla scelta del 3D e dall'esito del suo uso. I corpi che invadono il palcoscenico e la memoria di spettatori ipnotizzati non ci guadagnano in fisicità o in vita per una profondità di campo inattesa o l'improvvisa perdita di nitidezza dell'immagine a fronte di movimenti rapidi. Al di là degli occhialini, ci sono anime che soffrono, ma che anche gioiscono: Pina Bausch è uno dei pochissimi artisti - e comunque l'unico insieme a Rossini che mi venga in mente al momento - capaci di dare corpo tanto a una felicità profonda, quanto a una sensualità esuberante e contagiosa e o, ancora, ai dubbi, alle inquietudini di ogni anima. E dov'era il 3D quando queste avevano luogo?
L'alternarsi di palcoscenico e sfondi di architettura industriale urbana non smorza neanche l'impressione di una certa monotonia di soluzioni e disorienta sulla storia dei singoli spettacoli. Wenders punta sulla suggestione naturale degli sfondi - e ha ben ragione di scommettere su ciascuno di essi - ma questi non spiegano il dono della danza di Pina Bausch, per cui rivedrei mille e mille volte questo film: mi seggo lì, al cospetto della bellezza e dell'eleganza naturale, dell'ironia e della vita umana.