È come se lo scrittore volesse stimolare non soltanto i nostri pensieri, ma anche l’olfatto ed il gusto
Già Camilleri ci aveva fatto sentire i profumi ed i sapori della cucina siciliana attraverso le esperienze di Montalbano. Umberto Eco nel Cimitero di Praga intercala il racconto con ricette piemontesi e non, tramite Simonini; però questo ricettario risulta più cartaceo, eccita meno i sensi: in parole povere non si riesce a percepire l’odore ed il sapore delle pietanze attraverso la parola scritta.Ma questa moda di stimolare l’olfatto ed il gusto tramite il racconto non si limita solo alla nostra narrativa. Possiamo ricordare l’anglo-francese Joanne Harris (Chocolat, 1999; Vino, patate e mele rosse, Garzanti 2000); le sudamericane Laura Esquivel (Come l’acqua per il cioccolato, 1989) ed Isabel Allende (Afrodita, Feltrinelli 1998); le statunitensi Erica Bauermeister (La scuola degli ingredienti segreti, Garzanti 2009) e Sarah Addison Allen (Il profumo del pane alla lavanda, Sonzogno 2008); le asiatiche Marsha Mehran (Caffè Babilonia, Neri Pozza 2005; Pane e acqua di rose, Neri Pozza 2009), Yasmin Alibhai-Brown (Mango, curry e souvenir, Neri Pozza 2010), Ogawa Ito (Il ristorante dell’amore ritrovato, Neri Pozza 2010); e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Quando mi sono trovata davanti ad Un filo d’olio di Simonetta Agnello Hornby, però, e ne ho letta la quarta di copertina, ho capito che era qualcosa di totalmente diverso, perché l’idea di abbinare le ricette della tradizione familiare con i ricordi d’infanzia è assolutamente originale e completamente divergente dalla moda del momento, pur restando nel tema.Eppure, le sensazioni più intense dei primi giorni a Mosè, quelle che mi sono rimaste impresse, non sono legate al drastico cambiamento di stile di vita quanto piuttosto al cibo
Il significato del titolo è lampante: Il filo d’olio è il fil rouge che lega tutte le ricette presenti in questo libro. Ma direi anche che un altro fil rouge è l’affetto in particolar modo quello fra sorelle: Elenù e Teresù prima, Simonetta e Chiara dopo.
Faccio una piccola parentesi e vi racconto che oggi, ispirata da questo libro, ho provato a seguire una delle sue ricette, non una di quelle che sono in appendice, ma una di quelle “raccontate” fra i ricordi: la minestrina Primavera di Giovannina. Ho preso gli avanzi di legumi secchi ed ho girato per il frigorifero alla ricerca di ortaggi e verdure (purtroppo io non ho un orto a disposizione). Poi ho preso una cipollina ed una patata. La pastina da brodo però, l’ho presa dalla dispensa: la descrizione della Agnello Hornby, di come Giovannina chiudesse in una mappina i resti di pasta di vari formati e li schiacciasse con una pietra, mi affascinava (certo, io l’avrei fatto con il batticarne, e forse anche per questo la pastina avrebbe avuto un sapore diverso), ma mi sarei sentita un po’ stupida a fare qualcosa solo per il gusto di ripetere quei gesti, mentre nella dispensa avevo tre diversi formati di pastina da brodo! Comunque il risultato, che sicuramente non aveva niente a che vedere con l’originale che l’aveva ispirata, è stato davvero gustoso. Perché? Perché mi è sembrato di entrare nel libro e di tornare bambina a giocare fra i campi del Mosè.
L’ispirazione per Un filo d’olio nasce dal libriccino di ricette di nonna Maria. Nei pigri pomeriggi d’estate, le due figlie di nonna Maria, Elena e Teresa (Elenù e Teresù, a cui il libro è dedicato), cioè la madre e la zia della scrittrice, si introducevano furtivamente nella cucina – regno incontrastato dell’altra nonna durante il giorno – per preparare biscotti, panzerotti ripieni di crema di ricotta e cioccolato, crostate, ma soprattutto “l’utilissimo pandispagna”, che veniva mangiato con la prima colazione, a merenda o, imbevuto di alchermes e farcito di crema pasticcera e pere cotte, si usava per la zuppa inglese. Durante queste “infrazioni” venivano spesso raggiunte dall’autista di casa, Paolo, che guidato da un sesto senso o da un olfatto potentissimo, sapeva sempre quando le due signore erano in cucina, e dava loro una mano aiutandole a montare a neve gli albumi, a battere i tuorli o a tritare i pistacchi che decoravano la zuppa inglese. Le ricette venivano seguite alla lettera.Simonetta Agnello Hornby, a quattro mani con la sorella Chiara, anzi, a sei, perché il cugino Silvano, quasi un fratello, figlio di zia Teresa, ha fatto da consulente, unendo e confrontando i suoi ricordi con quelli delle cugine, decide dunque, partendo da quel libretto di nonna Maria, di ricostruire tutto un mondo di personaggi, atmosfere, sensazioni, aggiungendo anche altre ricette dolci e salate, quelle del cibo semplice ma gustoso che si mangiava in campagna durante la sua infanzia. Ed oltre ai ricordi personali dell’autrice ci sono anche i ricordi legati alla tradizione rurale: la mietitura, la trebbiatura, la raccolta delle mandorle, con le mennulare venute appositamente da Realmonte: ragazze da marito che, con i pochi soldi guadagnati, aiutavano i genitori a farsi il corredo. Ma soprattutto la famiata di Rosalia, il rito settimanale della panificazione: tecniche antichissime, gesti arcaici, donne che sapientemente si dividono in squadre per compiere il lavoro con un ritmo che sembra innato in loro, mentre i bambini le guardano affascinati, senza osare disturbare quel rituale solenne.
Paolo ricordava tutte le ricette ed era particolarmente conservatore: rifuggiva dalle varianti che certe volte entravano nella nostra cucina di soppiatto - margarina, zucchero grezzo, arachidi - e faceva una smorfia quando era mamma a introdurle. Zia Teresa, più avventurosa di lei, una volta a Palermo aveva perfino frequentato un corso di cucina sui dolci; ma per rispetto a Paolo le due sorelle si attenevano alle ricette scritte sui libretti di nonna Maria. Fu allora che mi resi conto che a casa nostra le ricette non cambiavano mai. Alcune erano state perfezionate nell'esecuzione, ma senza mai aggiungere o cambiare ingredienti. E non era stato introdotto nessun piatto nuovo.
Anche perché, a mio avviso, quando il ricordo e l’affetto condiscono una pietanza, sarà impossibile ritrovare quegli stessi sapori! Ecco perché quando Simonetta parla del caffè d’u parrinu non riesce più a ritrovare il sapore di quello preparatole da Rosalia.
…ho cercato di essere il più precisa possibile: ho pesato gli ingredienti e misurato i tempi di cottura. Eventuali inesattezze residue fanno in realtà parte delle ricette stesse, nella convinzione che – fatti salvi gli ingredienti di base e le procedure – tutte le variazioni e i dosaggi modificati in base ai gusti personali non possono che arricchire i piatti
Considerare ognuna di queste ricette un buon punto di partenza perché si trasformi in un’altra ricetta mi sembra il miglior risultato che potessi ottenere.
È un racconto autobiografico, totalmente privo di dialoghi. Io lo definirei un album di ricordi, in cui non mancano, ovviamente, le foto. Scritto con uno stile narrativo antico ma eterno, dove i vocaboli siciliani hanno il loro posto esatto perché, a tradurli con un comune nome italiano perderebbero totalmente il loro incanto; dove tutto è filtrato dagli occhi della Simonetta bambina, ma raccontato dalla Simonetta donna, avvocato e scrittrice con un fascino che ci riporta a confrontare le nostre esperienze estive con le sue e a farcele guardare sotto una nuova luce, che ce le rende più affascinanti.
Antonia e, ora, Chiara lo preparano esattamente come lei. Ma il loro caffè du parrinu, benché ottimo, non è la stessa cosa – manca il tocco magico di Rosalia.
Simonetta Agnello Hornby, nata a Palermo, vive dal 1972 a Londra, dove svolge la professione di avvocato ed è stata presidente per otto anni del Tribunale di Special Educational Needs and Disability. Il suo primo romanzo, La Mennulara, è del 2002. In seguito ha pubblicato La zia marchesa (2004), Boccamurata (2007), Vento scomposto (2009), La monaca (2010) e Camera oscura (2010), accolti con numerosi premi letterari e tradotti in diverse lingue.