Sta scrivendo a penna alcuni appunti per un suo film. Voce fuori campo:
Una donna viene uccisa con l’accetta, il volto diviso a metà; un’altra viene strangolata; un’altra ancora impiccata; un’altra tagliata a pezzi con la motosega; un’altra annegata nell’acqua bollente, la gola dilaniata da un gatto inferocito…
La macchina da presa si avvicina a Fulci fino a inquadrare in primo piano la sua testa e poi ad “entrare” nel suo cervello.
La voce fuori campo continua:
Bruciata viva… sepolta viva… torturata… accecata… pugnalata… segata in due… crocifissa… decapitata…
D’improvviso entra in campo un gatto che artiglia ripetutamente il cervello, mentre la voce comincia a distorcersi in maniera inquietante.
Per comprendere nella sua interezza Un gatto nel cervello è necessario inquadrarlo nel preciso periodo in cui Lucio Fulci l’ha realizzato. Bisogna tener presente che dal 1988 (anno di Zombi 3), fino al termine della sua filmografia (ovvero fino a Le porte del silenzio, del 1991), Fulci si trova in un periodo particolarmente fertile e gira una decina di horror. Sono film penalizzati da produzioni quasi sempre abbastanza esigue e i budget a disposizione sono modesti, ma quasi in contrapposizione e in risposta a questa non facile situazione economica in cui deve lavorare, Fulci ha tutta una serie di idee originali e personali. E’ il momento, questo, in cui riflette sul proprio cinema, sul cinema horror in generale e sul fatto di essere Lucio Fulci, ossia un regista di film horror. Girato subito dopo Demonia, Un gatto nel cervello nasce da una serie già esistente dal 1988 intitolata Lucio Fulci presenta e conosciuta anche con il titolo I maestri del thriller. Era una serie ideata per la televisione che però per una serie di motivi non aveva ottenuto un’uscita né in tv, né in video, né tanto meno al cinema. Acquisito da un’altra produzione, che aveva un contratto con Fulci per alcuni film, si pensò appunto di utilizzare questo materiale inedito della serie per costruire un film intorno alla figura di un regista di film dell’orrore. Inizialmente l’attore protagonista non doveva essere Fulci, ma probabilmente un attore americano di secondo piano. In seguito uno dei produttori, Luigi Nannerini, la figlia di Fulci, Camilla, e io stesso (che avevo collaborato alla sceneggiatura), lo abbiamo consigliato a interpretare il ruolo principale.
La storia, in realtà, è più che altro un pretesto perché l’idea che funziona, quella che fa sì che Un gatto nel cervello ancora oggi sia un film particolarmente amato dal pubblico dei fan, consiste nel mettere proprio Fulci al centro della sua narrazione. E’ lui lo spettatore-vittima del suo mondo di mostri, è lui la chiave per entrare dentro il suo stesso universo, artistico, cinematografico, personale: un’operazione evidentemente metacinematografica, un cinema nel cinema che rivela la medesima cifra stilistica dell’autore. Nel film compaiono elementi e situazioni tipicamente fulciane, come la concezione di un orrore assoluto dove ogni cosa, anche la più allucinante, può realmente accadere (come, per fare un esempio fondamentale, in L’Aldilà), oppure l’avversione per la psicanalisi, incarnata nella figura dello psichiatra serial killer.
Nella sua delirante visionarietà e nel suo ossessionante iperrealismo, Un gatto nel cervello è anche uno dei film più splatter del cinema di Fulci. Gli effetti a volte non sono eccezionali, però risultano spesso efficaci proprio nella loro rozzezza, nella loro sanguinarietà e inverosimiglianza. E’ anche l’ultimo film di Lucio Fulci ad uscire al cinema, perché i successivi Voci dal profondo e Le porte del silenzio uscirono direttamente per l’home video senza avere il passaggio in sala. In quel periodo, l’inizio degli anni novanta, l’horror italiano attraversa una forte crisi e si producono molti meno film rispetto agli anni ottanta. E’ una crisi che in realtà riguarda tutti i generi del cinema italiano, ma è soprattutto l’horror ad esserne penalizzato.
Un gatto nel cervello uscì accompagnato da un notevole battage pubblicitario, anche piuttosto divertente, con la frase di lancio Hitchcock ha inventato il brivido Fulci l’ha perfezionato, che in qualche modo richiamava una simile frase di lancio per Una sull’altra, il primo giallo diretto dal regista, nel 1969.
Fulci avrebbe voluto fare un seguito di Un gatto nel cervello, non con lui protagonista ma con un attore e con una chiave di lettura diversa, ma sempre all’interno di un discorso di cinema nel cinema e di incubi e realtà che si intrecciano tra loro.
Un gatto nel cervello è da una parte il gioco divertito di un regista che contempla se stesso e il proprio cinema, dall’altra una riflessione all’interno del cinema horror e in difesa del cinema horror. Non è un caso, infatti, che a partire da un certo punto della storia l’attenzione di Fulci si sofferma sulla figura dello psichiatra assassino, che si serve di un regista di film horror per i suoi fini criminali, ribaltando quindi quella tesi di certa psicanalisi sul cinema horror quale fonte di ispirazione per veri delitti. Nel film accade l’esatto contrario: è dalla realtà che nasce l’orrore e l’assassino è lo psichiatra, è la realtà a partorire il male e le mostruosità più aberranti.
Il cinema dell’orrore è invece soltanto un sogno liberatorio, catartico, assoluto, come ha sempre dimostrato nella sua filmografia un maestro come Lucio Fulci.