In una settimana vedo il secondo film, uscito in questo periodo, con protagonista un'eroina teenager. Ne "Il Grinta" dei Coen, si trattava di un'appena quattordicenne determinata, con adulta convinzione (o infantile?), a vendicare il padre. Nell'opera prima di Debra Granik (passata per Sundance, Torino Film Festival e Oscar), cattura lo sguardo dello spettatore Ree Dolly (Jennifer Lawrence): diciassette anni all'anagrafe, il doppio se non di più per esperienze, maturità, capacità di sopportare macigni che la vita le ha riservato. Nel primo film, eravamo in un western a tutti gli effetti, nel secondo benvenuti in un western anni 2000: non ci sono i cavalli, ma le macchine, tuttavia la realtà schiaffeggia e violenta allo stesso identico modo. La Granik disegna un ritratto dell'America cosiddetta "profonda", lontana anni luce dal sole della California o dai drink di Manhattan: colori spenti o praticamente inesistenti, povertà, poco rispetto delle regole se non quelle del clan (Gomorra?). La giovane Ree ha sulle spalle il peso di due fratelli piccoli, di una madre malata e di una casa che sta per essere loro portata via. Il padre non c'è: fuggito, morto, chi lo sa. Produce anfetamine e spaccia e di lui non ci sono più tracce. Quello che sorprende è l'atteggiamento della figlia che, nonostante le gravissime colpe paterne, non lo giudica mai, non lo condanna, anzi inizia a cercarlo per costringerlo a fare il proprio dovere.Il film non è male nel complesso, ma non coinvolge. Potrebbe essere definito il "classico" film indipendente americano, dove in quel "classico", a mio avviso, c'è l'accusa più rilevante. La regista sposa la realtà e la schiaffa, asciutta, sullo schermo, ed è un pregio. Ma oltre questo manca qualunque spunto di innovazione e qualunque ricerca stilistica più pregiata che dia valore aggiunto alla "gelida" sceneggiatura. Ottima prova di tutti gli attori ed in particolare della Lawrence.
In una settimana vedo il secondo film, uscito in questo periodo, con protagonista un'eroina teenager. Ne "Il Grinta" dei Coen, si trattava di un'appena quattordicenne determinata, con adulta convinzione (o infantile?), a vendicare il padre. Nell'opera prima di Debra Granik (passata per Sundance, Torino Film Festival e Oscar), cattura lo sguardo dello spettatore Ree Dolly (Jennifer Lawrence): diciassette anni all'anagrafe, il doppio se non di più per esperienze, maturità, capacità di sopportare macigni che la vita le ha riservato. Nel primo film, eravamo in un western a tutti gli effetti, nel secondo benvenuti in un western anni 2000: non ci sono i cavalli, ma le macchine, tuttavia la realtà schiaffeggia e violenta allo stesso identico modo. La Granik disegna un ritratto dell'America cosiddetta "profonda", lontana anni luce dal sole della California o dai drink di Manhattan: colori spenti o praticamente inesistenti, povertà, poco rispetto delle regole se non quelle del clan (Gomorra?). La giovane Ree ha sulle spalle il peso di due fratelli piccoli, di una madre malata e di una casa che sta per essere loro portata via. Il padre non c'è: fuggito, morto, chi lo sa. Produce anfetamine e spaccia e di lui non ci sono più tracce. Quello che sorprende è l'atteggiamento della figlia che, nonostante le gravissime colpe paterne, non lo giudica mai, non lo condanna, anzi inizia a cercarlo per costringerlo a fare il proprio dovere.Il film non è male nel complesso, ma non coinvolge. Potrebbe essere definito il "classico" film indipendente americano, dove in quel "classico", a mio avviso, c'è l'accusa più rilevante. La regista sposa la realtà e la schiaffa, asciutta, sullo schermo, ed è un pregio. Ma oltre questo manca qualunque spunto di innovazione e qualunque ricerca stilistica più pregiata che dia valore aggiunto alla "gelida" sceneggiatura. Ottima prova di tutti gli attori ed in particolare della Lawrence.
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