Un giorno devi andare di Giorgio Diritti

Creato il 07 ottobre 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
  • Anno: 2013
  • Durata: 110'
  • Distribuzione: Bim
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia, Francia
  • Regia: Giorgio Diritti
  • Data di uscita: 28-March-2013

Una storia che è  viaggio dell’anima.

Dicevamo il mese scorso, a proposito del film In un posto bellissimo, che la regista Giorgia Cecere, allieva di Olmi, ha imparato dal maestro la sobrietà, e di come sa lavora per sottrazione. L’abbiamo accomunata a Giorgio Diritti, per questo, anche lui allievo dello stesso maestro, fino a ipotizzare che In un posto bellissimo potrebbe essere la direzione del vagare alla ricerca di sé, che dà il titolo all’ultimo film di Diritti, Un giorno devi andare.

Eh, sì, tutti noi un giorno dovremmo andare; cambiar luoghi, visuali, persone, e destino. Non necessariamente fino in Brasile, non necessariamente a vivere nelle favelas. Ma concedendoci un viaggio, dell’anima, questo sì.

E’ il lungo e sofferto percorso di Augusta (Jasmine Trinca), ragazza trentenne che fugge da due lutti insostenibili: la morte del suo bambino e quella del padre. Eventi che ci vengono risparmiati: il bimbo ripreso solo nell’ecografia che è l’incipit del film, il padre in una foto sul cellulare più volte rivisitata, la stessa che compare in cornice a casa della madre di Augusta. Tutta la narrazione alterna due luoghi lontanissimi tra loro, quello d’origine, il Trentino, chiuso dalle montagne, e il Brasile dagli spazi immensi. Nei primi si riconoscono i posti chiusi a cui Diritti ci ha abituati ne Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà. Qui ci sono l’appartamento materno e la sua solitudine, il convento delle suore (il santuario di San Romedio) e le loro preghiere, la casa della nonna dove la madre si muove impacciata, in una relazione fatta di silenzi scontrosi, di aiuti offerti alla donna anziana e da lei rifiutati. Quando la nonna poi finisce in ospedale, la madre legge, guarda caso,  “Cuccette per signora” di Anita Nair, un romanzo che parla di ricerca della felicità, attraverso un viaggio. Non ha l’aria di essere mai partita, lei, e continua a vivere tra poche parole; la stretta di mano della madre è il massimo dell’intimità tra le due donne, verso la fine del film.

Anche dall’altra parte del mondo, i dialoghi sono misurati, soprattutto quando Augusta è affidata a suor Franca, che va in giro, instancabile, nel suo lavoro di evangelizzazione. Non  è di religione però che la nostra ragazza ha bisogno, ma di una spiritualità d’altro tipo, qualcosa che riempia davvero i suoi vuoti interiori. Non le certezze di una fede rivelata, troppo sicura di sé, ma la fatica dell’incertezza, della ricerca, che si appaga nei sorrisi dei bambini, nelle confidenze delle donne, in quella vita precaria in cui lei possa veramente sentirsi accettata ed utile. Perché vuole “essere e sperare” come dice in una delle sue rare lettere alla madre. Solo quando interrompe i suoi approdi nei diversi villaggi in compagnia della suora, e risponde al desiderio di partire, potrà piano piano trovare o ritrovare se stessa. Sarà un lungo processo interiore, che inizia nel momento in cui lascia l’incanto dei paesaggi, e che si conclude nello stesso splendido paesaggio, ma da sola, dopo aver attraversato esperienze altre, aver incontrato altre vite, altre perdite, altre delusioni e altri dolori.

Sembra volerci dire Giorgio Diritti che i viaggi alla ricerca del Sé non sono tutti uguali e tutti ugualmente efficaci. Augusta, infatti, nella prima parte del suo girovagare, rimane impantanata nella sofferenza, se pure l’acqua e la vastità dei panorami dovrebbero suggerire un’apertura della psiche. E noi che osserviamo, ci chiediamo perché il regista abbia voluto mantenere per un bel po’ il contrasto tra ampiezza dello sguardo e ristrettezza della coscienza. Forse per dare più senso al cambiamento che avviene dopo? Augusta sorride e parla volentieri per la prima volta all’interno di una casa brasiliana, una tra le tante palafitte costruite sull’acqua marcia e melmosa, tra i rifiuti con cui i bambini hanno tanta, troppa, dimestichezza.

Perché ad Augusta non bastano neanche i fiumi e i mari incontaminati, le terre selvagge, che costringono a guardarci dentro e farci sentire ancora più piccoli, insignificanti, eppure con un tormento che non si attenua. E neanche la lettura di Simone Weil, che, però, forse, come i paesaggi mozzafiato, potrebbe essere una preparazione a quello che avverrà, nella seconda parte di questa storia fatta di così poche parole e tante suggestioni.

Al contrario, le serve il calore per guarire, e lo trova nelle vite altrui, vite semplici e accoglienti. E siccome a Giorgio Diritti non piacciono affatto le soluzioni facili, questo mondo altro non è presentato come il paradiso terrestre: ci sono miserie, materiali e umane, uomini che non hanno voglia di lavorare, che bevono e vendono anche i bambini, promiscuità, privazioni economiche, ma tutti hanno il cellulare. Significativa la scena in cui alcuni ragazzini riprendono un’abitazione che sprofonda nell’acqua e se ne va, come rifiuto insieme ad altri rifiuti.

Nutrita però da questa umanità che non ha ancora perso la voglia di ballare, Augusta sembra aver trovato il modo per affrontare l’ultimo dolore in solitudine, attraversarlo, e, speriamo, guardare dentro e fuori di sé con occhi nuovi. Tornare o rimanere (a questo punto non importa) è secondario.

Margherita Fratantonio



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