C'è forse dignità nell'essere costretti a cambiare lavoro di continuo, se si è abbastanza fortunati da trovarlo, visti i tempi? Ho scritto appositamente "costretti": i fan della flessibilità, del "cambio lavoro come e quando voglio" storceranno il naso, ma nell'attuale mercato del lavoro italiano, la situazione è questa.
Non abbiamo libertà di scelta, siamo in completa balia del mercato, costretti ad accettare offerte di lavoro non in linea nè con i nostri studi, nè con le nostre aspirazioni, con stipendi e diritti sempre più compressi verso il basso, il tutto sacrificato nel nome della crescita e della necessità di uscire dalla crisi.
Un neoliberismo sfrenato si è impadronito della nostra classe dirigente, ormai da anni impegnata a farci ingurgitare il precariato, spacciato per la soluzione di tutti i mali, dalla crisi alla disoccupazione: "il tempo indeterminato è noioso" diceva uno; "è finita l'epoca del lavoro fisso" gli faceva eco l'altro; "per un'Italia più moderna, serve più flessibilità" rispondeva un altro ancora e così via.
Un attacco martellante al contratto a tempo indeterminato, visto come il solo e unico ostacolo alla modernizzazione del Paese, dimenticandosi di citare, invece, come vere cause della crisi, cosucce da niente come burocrazia ingombrante, tassazione asfissiante, debito pubblico colossale, corruzione e sprechi furoi controllo, criminalità subdolamente dilagante.
A quanto pare, questi problemi non sono ritenuti, poi, tanto gravi nemmeno dall'attuale Governo, tant'è vero che il Jobs Act punta unicamente a precarizzare ulteriormente i rapporti di lavoro, in barba, pare, alle stesse leggi europee.
Una coppia di avvocati, infatti, ha presentato un esposto alla Commissione Europea contro la creatura renziana, definendola in contrasto con la direttiva europea n. 70 del 1999, che stabilisce i criteri distintivi del contratto a tempo determinato: durata massima, numero limitato di rinnovi e causale.
Nel Jobs Act proprio quest'ultima caratteristica è stata abolita: questo, unito al fatto che, nelle aziende con meno di 5 dipendenti (moltissime, nell'Italia delle piccole-medie imprese) non si può applicare il limite del 20% di lavoratori atipici, permetterebbe un uso indiscriminato dei contratti a termine, a tutto discapito del tempo indeterminato, in aperto contrasto con le direttive europee.
Secondo la normativa 70/99, infatti, il contratto a tempo indeterminato dovrebbe essere la forma dominante, nei rapporti di lavoro, mentre il contratto a tempo determinato dovrebbe ricoprire, unicamente, il ruolo di eccezione. E' così in tutta l'Unione dove, seppure in fase calante a causa della crisi, il posto fisso è ancora una realtà.
Certo, ci sono forme di tempo indeterminato più flessibili (la vera flexicurity), diffuse soprattutto nei Paesi del Nord Europa, dove il lavoratore può cambiare occupazione praticamente quando vuole (ecco, quindi, la vera libertà di scelta), mentre il datore di lavoro ha maggiore libertà di licenziamento, il tutto regolamentato da norme che mitigano la precarietà (salario minimo, apprendistato funzionante, meritocrazia e dinamismo sociale, ecc.).
E' il modello che ha ispirato i sostenitori italiani della flessibilità, ma si tratta di un sistema nato e sviluppatosi in un preciso contesto – quello nordeuropeo -, estremamente differente dalla nostra penisola.
Non si può pretendere di prendere un modello, per quanto buono sia, e di impiantarlo, così com'è, in una realtà densa di problemi e contraddizioni, come quella italiana. Invece, è esattamente quello che hanno fatto i nostri politici, creando scompensi, diseguaglianze e problemi a catena. La solita ricerca della soluzione facile ed immediata, buona per tg e campagne elettorali.
Prima di introdurre la flessibilità, invece, avrebbero dovuto mettere in atto riforme strutturali, per favorire la meritocrazia e la mobilità sociale, lo snellimento della burocrazia e la razionalizzazione del fisco, la lotta agli sprechi ed alla corruzione e così via.
Solo così, il mondo del lavoro italiano sarebbe stato davvero dignitoso.
Danilo