Un libro di Gianfranco Lauretano su Clemente Rebora: note di Corrado Bagnoli

Da Narcyso
16 marzo 2014

Gianfranco Lauretano, Incontri con Clemente Rebora, La poesia scoperta nei luoghi che le hanno dato vita, Rizzoli Bur

di Corrado Bagnoli

Mi è piaciuto molto questo libro di Gianfranco Lauretano che egli stesso chiama racconto. Non è infatti un saggio di critica letteraria, non è una biografia, non è una ricostruzione storica, ma è invece tutto questo insieme e altro ancora. Soprattutto è un gesto esemplare, l’indicazione chiara e semplice di cosa possa voler dire leggere un poeta, tirarlo fuori dalla scatola dove era stato rinchiuso, dallo scaffale di polvere e luoghi comuni dove era stato appoggiato, forse dimenticato. Dico un gesto perché il racconto di Lauretano viene quasi come il resoconto di un viaggio realmente intrapreso per incontrare il poeta e i suoi luoghi, per ascoltare la voce della realtà che il poeta sentiva e alla quale rispondeva con urgenza e necessità attraverso la sua vita e la sua poesia. Per conoscere, sembra dire Lauretano, occorre andare incontro, occorre un moto, e il viaggiatore-narratore di questo libro impara ciò che sa proprio dal confronto continuo e serrato con quello che è più dell’oggetto del suo studio e diventa invece una specie di maestro e di guida nel suo percorso; impara viaggiando, non solo, ma portando con sé la moglie, facendosi introdurre da amici là dove deve andare, portandosi dietro insomma la vita e scegliendo di spenderla nella rincorsa a una poesia che, come dice lui, “ha molto da dire al nostro presente”. Ed è un gesto esemplare perché traccia una via per chiunque decida di leggere davvero un poeta: la lettura è un avvicinamento, ci dice questo libro, ed è un lasciarsi attraversare. Lauretano, in una delle sezioni di questo taccuino di viaggio, cita questi versi di Rebora: “Qui nasce, qui muore il mio canto:/ E parrà forse vano/ accordo solitario; Ma tu che ascolti, recalo/ Al tuo bene e al tuo male: E non ti sarà oscuro”. Egli fa sua l’indicazione di Rebora su come si faccia mai a capire la poesia, come si possa aggirare la sua oscurità: occorre avvicinarsi al canto, accostandolo al nostro bene e al nostro male, paragonando cioè se stessi, la propria anima a quello che la poesia ci dice. Lauretano sa, grazie anche all’incontro con Rebora, che la poesia è uno strumento, che sta dentro il mondo, dentro il movimento del mondo, e partecipa alla sua bellezza e alla sua miseria e ne è cambiata. La poesia si confronta con tutto, mangia, direi tutto, ma non è il tutto: essa è strumento “sporco e puro come il mondo, per attingere a una conoscenza più profonda e prossima all’incessante movimento dell’io e dell’universo nel cammino di adesione al proprio destino”. Il libro è ricchissimo di passaggi che illuminano la poesia di Rebora, la quale al contempo, però, illumina il metodo e cadenza il passo del lettore-narratore: nell’analisi dei testi, nel paragone costante con alcuni altri maestri della poesia, uno su tutti Leopardi, ma poi anche Carducci o Montale, prende forma la figura di un’opera unitaria e fortissima e di un uomo deciso e straordinariamente determinato alla scoperta della verità e del bene; di un poeta che attraverso la musica si avvicina al silenzio della natura che “in me si accorge”; di un uomo che ha amato e che è stato riamato, e che non ha trovato pace e felicità fino a che, grazie ad incontri determinanti come quello con Rosmini, non trova il grande alveo dentro cui anche la sua poesia si incanala, il grande abbraccio con Dio a cui consacra infine tutta la sua vita. La tesi dell’unitarietà dell’opera di Rebora dai Frammenti lirici ai Canti dell’infermità – spesso negata da una critica il cui sguardo è oscurato da una ideologia che non è capace di avvicinare davvero l’opera – attraverso queste pagine trova piena conferma, ma sarebbe certo riduttivo relegare il valore del libro di Lauretano a quello di una ricognizione critica attenta e intelligente, cosa di cui peraltro, comunque abbiamo tutti bisogno. Perché il valore del libro sta proprio in quel suo mettersi a disposizione di ciò che intende conoscere, di quell’oggetto che, nella sua grandezza e nella sua necessità ed urgenza, impone a Lauretano un metodo che lo mette in grado di illuminarne la verità e l’importanza per l’uomo contemporaneo e per tutti coloro che si avvicinano alla poesia con il desiderio vero di conoscere. Questa disposizione è frutto anche di un’umiltà che contrassegna da tempo l’opera critica e poetica di Lauretano e sembra qui essere la condizione necessaria per il suo gesto, per il suo e il nostro viaggio, perché come diceva Agotha Kristof “ per scrivere bisogna essere niente, cosa che vale anche per leggere e scrivere sugli altri”. Per questo bisogna ringraziare Lauretano, non solo perché ci ha riportato dentro il cuore pulsante della poesia del Novecento che troppo spesso è stata liquidata senza una sua vera comprensione, ma anche e soprattutto perché ci ha indicato con quest’opera una concreta possibilità di pensare la poesia tutta come un luogo privilegiato per fare i conti con la nostra umanità, con il nostro destino. E perché lo ha fatto essendo essa stessa ciò che indica, diventando forma mentre si fa materia, obbedendo con umiltà alla materia del mondo raccontato nel verso di un poeta affascinante e complesso, drammatico e vitale come Rebora.

***

La mia vita, il mio canto
L’egual vita diversa urge intorno;
cerco e non trovo e m’avvio
nell’incessante suo moto:
a secondarlo par uso o ventura,
ma dentro fa paura.
Perde, chi scruta,
l’irrevocabil presente;
né i melliflui abbandoni
né l’oblioso incanto
dell’ora il ferreo battito concede.
E quando per cingerti lo balzo
-’ sirena del tempo -
un morso appéna e una ciocca ho di te:
o non ghermita fuggì, e senza grido
nei pensiero ti uccido
è nell’atto mi annego.
Se a me fusto è l’eterno,
fronda la storia e patria il fiore,
pur vorrei maturar da radice
la mia linfa nel vivido tutto
e con alterno vigore felice
suggere il sole e prodigar il frutto;
vorrei palesasse il mio cuore
nei suo ritmo l’umano destino,
e che voi diveniste – veggente
passione del mondo,
bella gagliarda bontà -
l’aria di chi respira
mentre rinchiuso in sua fatica va.
Qui nasce, qui muore i! Mio canto:
e parrà forse vano
accordo solitario;
ma tu che ascolti, recalo
al tuo bene e al tuo male;
e non ti sarà oscuro.

Clemente Rebora

***

IL SITO UFFICIALE DELL’OPERA DI CLEMENTE REBORA 


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :