Un modello di santità..nell’impegno politico..Carlo d’Austria….fine articolo.

Creato il 28 marzo 2012 da Gianpaolotorres

Carlo e Zita con cinque dei loro figli.

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.2 La fine della monarchia danubiana

I paesi già imperiali nell’autunno del 1918 festeggiano la libertà, ma devono fare ben presto i conti con la nuova realtà. La casa comune e il paterno defensor civitatis non ci sono più. Ogni Stato-nazione può contare solo su sé stesso per difendersi dall’ostilità dei numerosi vicini. Le creature politiche post-asburgiche partorite a Versailles, finiranno per incorporare ciascuna non poche minoranze allogene, sì da sembrare a loro volta degli «imperi in sedicesimo» piuttosto che degli Stati nazionali, e dovranno far fronte ben presto anch’esse alla questione dell’irredentismo, trovandosi cioè alle prese con nazionalismi altrettanto spietati e non più con il multi-nazionalismo paternalistico degli Asburgo. Gli Stati nati dalle ceneri dell’Impero dovranno percorrere in realtà un lungo e tormentato iter in cerca della stabilizzazione. Negli anni 1930 Austria, Boemia, Ungheria, Slovacchia, Croazia conosceranno dittature conservatrici e poi cadranno gradualmente nell’orbita o sotto il giogo del Reich nazionalsocialista, per, finire, da ultimo, dopo il nuovo atroce conflitto mondiale, preda dell’impero comunista e soffriranno per decenni sotto regimi totalitari, atei e collettivisti.

La caduta «pilotata» dell’impero di Carlo lascerà al centro dell’Europa un vuoto, un «buco nero», che realtà politiche artificialmente pluri-nazionali come la Cecoslovacchia o la Jugoslavia monarchica e poi nazional-comunista non riusciranno a colmare se non in maniera effimera. Un vuoto che genera tuttora instabilità nella culturalmente frastagliata area danubiana e balcanica. In Jugoslavia, dopo la morte del dittatore comunista di origini croate Josip Broz Tito (1892-1980) e la rimozione del Muro di Berlino (1989), fra il 1991 e il 2001, sono scoppiate guerre etnico-civili sanguinose, cui solo l’intervento internazionale ha posto freno e dove oggi è necessaria la presenza degli eserciti della Nato per impedire nuove e più selvagge «pulizie etniche».

III. Il beato

La santità del beato Carlo credo stia proprio in questo: che egli, nel ruolo unico di re e imperatore, seppe continuare a vivere le beatitudini cristiane adattandole al nuovo e non facile stato.

Se è vero che, come insegna san Giacomo nella sua lettera scritturale — «Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza» (Gc 5, 11) —, la pazienza rappresenta la quintessenza della santità, Carlo, con tutte le umiliazioni che ha dovuto sopportare, ha di certo varcato «la soglia della speranza» e raggiunto la beatitudine. Se vogliamo scegliere la beatitudine che più gli si addice, non possiamo non vederla in quella di «operatore di pace», in cui si distinse sia nei rapporti famigliari, sia come imperatore e capitano supremo.

1. L’iter

Fin da subito dopo la sua morte in esilio si diffuse la fama di santità dell’ultimo degli Asburgo. Nacque ben presto un’associazione, l’Unione di Preghiera — o Gebetsliga, in tedesco —, animata da Zita, da parenti ed estimatori della migliore società europea di tutte le classi, che si mise alacremente all’opera per conservare la memoria di Carlo e per ottenerne la beatificazione. Fu un lavoro oscuro e tenace che dovette arrestarsi tuttavia davanti al livore nazionalsocialista e poté riprendere solo dopo la caduta di Hitler, il caporale austriaco che manifestava un autentico odio per Carlo.

Ma l’ostilità contro Carlo e contro ciò che egli rappresentava che aveva dovuto subire in vita continuò anche dopo la seconda guerra mondiale e non furono poche le pressioni «discrete» sul Vaticano per fermare o rallentare l’iter del suo processo di santificazione. I nazionalisti austriaci, i progressisti, cattolici e «laici», le logge austriache ed europee: tutti intravedevano uno scacco e un pericolo nel trionfo anche solo postumo, anche solo spirituale, che si preparava per l’antico avversario.

Carlo opera il miracolo, determinante a norma canonica per la beatificazione, nel 1960, quando una semplice suora polacca operante in Brasile si trova fra le mani una immaginetta di Carlo, diffusa fin là dall’Unione di Preghiera, ne invoca l’intercessione per ottenere la guarigione da una grave infermità alle gambe e nel corso della notte inspiegabilmente si trova guarita.

Il processo canonico durerà oltre ottant’anni, ma alla fine il traguardo sarà tagliato. E ciò avverrà anche grazie al papa polacco, Giovanni Paolo II — di cui era nota l’insensibilità alle cautele politiche in materia di santità —, il quale, al tramonto del suo pontificato, imprimerà una drastica accelerazione alla causa, e così il 3 ottobre 2004 Carlo d’Austria sarà proclamato beato in piazza San Pietro: la sua festa sarà fissata per il 21 di ottobre, il giorno delle sue nozze con Zita.

2. Il senso

Cercando di approfondire il senso della beatificazione di Carlo d’Austria all’alba del terzo millennio cristiano, in primis non bisogna dimenticare che Carlo è stato dichiarato sì beato, ma non è ancora santo e che quindi bisogna ancora agire e pregare perché lo diventi: soprattutto affinché compia un secondo miracolo, pre-requisito richiesto dal diritto canonico.

Poi, che Carlo è chiamato beato per come è vissuto e per come è morto, cioè esemplarmente, nonostante le debolezze umane, nella vita privata e negli atti di governo, da cui egli, come tutti, non fu esente; non ultimo, poi, perché ha compiuto un miracolo post mortem: il che fa passare tutto il resto in secondo piano.

A capire meglio questo senso aiuta Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), il quale, nell’omelia pronunciata il 3 ottobre 2004 durante la cerimonia di beatificazione, così si è espresso: «Il compito decisivo del cristiano consiste nel cercare in tutto la volontà di Dio, riconoscerla e seguirla. L’uomo di Stato e cristiano Carlo d’Austria si pose quotidianamente questa sfida. [...] Fin dall’inizio, l’Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. [...] Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!».

Dunque, secondo il servo di Dio Papa Wojtyła, si può essere santi sempre, in qualunque ruolo la Provvidenza ci assegni, come anonimo quidam de populo (Esd 2, 70), come ardente apostolo della carità, e anche come imperatore. Ancora, si può diventare santi anche facendo politica, purché sia una politica «di servizio santo», perseguendo la santità anche nell’azione politica. Troppo spesso si sente ripetere che «la politica è una cosa sporca», che insudicia chi la pratica, che il cristiano deve «fare profezia e non politica», che «occorre coltivare la spiritualità “della tenda” e non “della città”». Carlo — e il Pontefice romano, beatificando Carlo — smentisce questa prospettiva da «anime belle».

Carlo non ha scelto di diventare imperatore, ma una volta che la Provvidenza gli ha affidato il destino dei popoli della sua monarchia in un frangente del tutto drammatico ed eccezionale Carlo non si è tirato indietro: semplicemente ha trasferito nel nuovo contesto il suo spirito cristiano e ha affrontato con questo medesimo spirito le nuove e inedite sfide che gli si ponevano davanti. Il fine è per lui sempre il medesimo: il bene comune, la salvezza dei popoli che Dio gli ha dato da difendere e da guidare. Certo, nel nuovo stato la vita per lui si farà dura, conoscerà la doppiezza, la viltà, il tradimento anche delle persone a lui più vicine. Subirà un esilio, l’onta della prigionia e della deportazione, infine una morte precoce, in povertà e abbandonato da tutti.

Ma egli ha vissuto il duplice declino, suo e della monarchia, intrepidamente, con fermezza e quasi con durezza verso di sé e verso i suoi cari ed è grazie a questo contesto — e non: «malgrado questo contesto» — che egli si è conquistato la santità.

In questo senso, Carlo rappresenta un esempio e un modello soprattutto per chi vive la vita politica, all’interno della città, nei partiti politici, nella formazione civico-culturale.

Un altro luogo comune da sfatare è che Carlo, in quanto aristocratico e imperatore, sia un santo «di destra». Carlo — e con lui di nuovo il Papa — contribuisce a smantellare l’idea che la santità sia monopolio dei poveri, dei semplici, di chi fa la carità materiale, di chi immerge le mani nelle piaghe dei sofferenti e dei poveri, secondo il modello di santità del «prete di strada» o della beata madre Teresa di Calcutta (1910-1997). Nella Chiesa non esistono solo «santi degli ultimi»: con tutto il rispetto per le altre vie, esistono anche i «santi dei primi». È cioè possibile, con gli stessi «diritti» di cittadinanza dell’altra scelta, praticare una santità vissuta in quegli ambienti dove regnano la povertà o la malattia ma dove domina l’agio e dove magari gli ostacoli da vincere sono l’orgoglio di casta e il puntiglio d’onore. L’infinita schiera dei santi di Dio che l’Apocalisse ci raffigura, contiene una pluralità di soggetti, di uomini e donne di tutti i tipi e condizioni e vocazione: ci sono i santi degli ultimi, i santi del popolo, i santi pontefici, gli asceti, gli eremiti, i confessori, i fondatori, eccetera… E ci sono anche i re e gli imperatori santi. E questi — udite, udite —, quando sono proclamati beati, vengono effigiati sulla facciata di San Pietro, non in borghese — come si era sospettato fino all’ultimo sarebbe successo a Carlo —, ma con la loro bella divisa militare dai magnifici colori.

IV. La lezione

Concludendo, Carlo vive agli esordi del «secolo breve», di quel XX secolo, che è il «secolo del male» secondo Alain Besançon. Egli è l’ultimo vivido bagliore di una grande tradizione dinastica che con lui si chiude. Una tradizione che ha sempre vissuto all’ombra della fede cattolica e che ha trovato il suo emblema in quell’«A.E.I.O.U.», che correda gli stemmi con l’aquila bicipite e che è stato letto anche come «Adoretur Eucharistia In Orbe Universo», «Si adori l’Eucaristia in tutto il mondo». Carlo è l’ultimo sovrano, insieme forse a re Baldovino I del Belgio (1930-1993), a vivere la propria regalità con spirito cavalleresco e in lui si può vedere l’ultima incarnazione dell’ideale di sovrano cristiano.

Oggi Carlo non c’è più, l’Impero è scomparso, altri imperi sono sorti e sono tramontati in più o meno breve tempo, il mondo si è fatto piccolo, conosce altre sfide e preferisce altre soluzioni politiche.

Ma è davvero tutto finito, oggi, potremmo chiederci? Gli ideali temporali e ultraterreni che Carlo ha così bene incarnato si sono completamente esauriti, hanno perso oggi senso?

Certo, la condizione attuale non lascia intravedere molte possibilità di un ritorno degli imperatori cristiani, né lascia spazio a formule politiche tematicamente poste al servizio della verità e della Chiesa. Non coltivo dubbi: la civiltà cristiana che l’Occidente ha conosciuto, intesa come cultura cristiana che si fa istituzione, è definitivamente terminata.

Eppure, è un fatto — e non un caso — che la Chiesa riproponga oggi un modello d’impegno laicale e d’impegno laicale nella politica, come quello di Carlo, esortandoci a seguirne le orme.

È altrettanto un fatto, tuttavia, che quando, ai nostri giorni, si osservano le convulsioni finali di un nazionalismo perverso e rivoluzionario, la domanda d’istituzioni sovra-nazionali si ponga in maniera crescente. E questo è un dato positivo, a patto però che non si tratti di meri aggregati burocratici e anonimi, come tendenzialmente è l’Unione Europea, bensì di realtà politiche dalle identità «forti», plurali e integratrici proprio perché forti, che si candidino a una missione storica di civilizzazione, perché detengono un primato e hanno da offrire qualcosa di più, un valore aggiunto ai popoli — un’idea, un valore, una forza —, che con loro vengono a contatto.

Gli Asburgo furono in certa misura un esempio della possibilità di tutto questo, ossia di un potere su molti popoli esercitato al servizio dell’evangelizzazione e la cui idea-guida affonda le radici nel cattolicesimo. Non voglio con questo dire che devono tornare gli Asburgo, né che per essere cattolici bisogna per forza amare l’impero. Oggi la nostalgia per le forme e i protagonisti di un’epoca ormai storicamente chiusa è priva di senso. Ma considero legittima la nostalgia per l’essenza di quella che fu la cristianità europea, che è a sua volta legittima in quanto coronamento necessario — almeno in tesi, come finalità — dell’idea di regalità del Signore. Così non è illegittimo lavorare perché la nascita di entità sovra-nazionali rispetti determinati criteri: sia coerente con le radici cristiane dell’Occidente, abbia un profilo identitario forte, si attui attraverso un governo sempre meno impersonale, consista di un apparato limpido, onesto ed efficiente, come oggettivamente fu per lunghi periodi quello asburgico. Ciò che nascerà, se nascerà, avrà tuttavia le forme che la Provvidenza e la sensibilità umana vorranno far nascere…

Ma è ancor di più legittima e perenne la nostalgia della santità.

Carlo d’Austria, insieme a Thomas More (1478-1535), ci offre un esempio riuscito di uomo di Stato integro, disinteressato, formato alla retta politica all’interno di una tradizione e di una famiglia, nonché di uomo cristianamente santo, che si fa carico fino al sacrificio finale della sorte — e sì, diciamolo, anche delle anime, per quanto compete al ruolo del potere civile — dei suoi sudditi e cittadini. E non dimentichiamo che entrambi hanno offerto la loro vita — Carlo in maniera incruenta, Thomas sul patibolo — per tener fede a una promessa e per ribadire il legame a una legge che è più che umana, quasi che il «potere cristiano”, come dice il filosofo spagnolo del secolo XIX Juan Donoso Cortés (1809-1853), non possa andar esente da quella croce, che il cristianesimo porta inevitabilmente con sé.


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