Un mondo di bipedi condannati alla libertà
Creato il 28 aprile 2010 da Pupidizuccaro
Parlando dei Fratelli Karamazov Dostoevskij scriveva: «Il problema principale che sarà trattato in tutte le parti di questo libro, è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o inconsciamente tutta la vita: l’esistenza di Dio».
Nessuno legge i Fratelli Karamazov per la trama: è un canovaccio standard, buono per ciclostilare i gialli Mondadori. Bastano due righe per liquidarla: padre (Fedor Pavlovic Karamazov) e figlio maggiore (Dimitrij) si contendono la stessa donna (Grusenska), una sordida mantenuta. Ci sono altri tre fratelli, un mistico (Aleksej), un dialettico (Ivàn) e un altro fratello (il servo Smerdjakov), bastardo e epilettico. Il fratello dialettico con i suoi dubbi metafisici («Se Dio non esiste, l’uomo è Dio e tutto è permesso») manda in pappa il cervello dell’epilettico che uccide il padre-padrone. L’epilettico si suicida impiccandosi, il fratello maggiore va a finire in carcere, il mistico cerca di farlo fuggire e il dialettico impazzisce, lacerato tra Dio, il Grande Inquisitore e un simpaticissimo povero diavolo. Questa è solo l’apparenza, la facciata che cela uno dei più importanti romanzi del mondo.
George Steiner l’ha sottolineato bene, Dostoevskij non si legge, in lui si crede, si condivide la sua visione del mondo.
Chi legge i Fratelli Karamazov deve agire come chi si perde in un bosco: scegliere una direzione e seguire sempre la stessa, senza deviazioni.
Seguiamo Ivàn e la sua leggenda del Grande Inquisitore, vera e propria summa di tutta l’opera dostoevskiana.
L’intera vicenda ruota attorno ai tre fratelli del titolo: Dmitrij, Ivàn e Aleksej Karamazov, schematizzando altro non sono che tre sfaccettature dell’animo umano: Dmitrij è l’uomo delle passioni, Ivàn l’uomo della ragione, Aleksej l’uomo del sentimento.
La trama del romanzo è fin troppo schematica, come spesso capita in Dostoevskij, l’impianto narrativo è solo il pretesto per un’ulteriore trivellazione della psiche umana, non è importante chi ha ucciso il padre dei tre fratelli Karamazov, il viscido usuraio Fedor Pavlovic, la questione fondante ruota sempre attorno alla riflessione sull’esistenza umana e soprattutto all’interrogativo angosciante: che cos’è l’amore? È possibile l’amore in un mondo condannato alla libertà?
Chi sono i personaggi di Dostoevskij? Azzardiamo una risposta: sono creature che sanno, e sanno troppo. E questo li carica di un fardello che impone loro una scelta. Sentono il sapore della vita e amano. Vogliono disperatamente essere amati da una donna, da un uomo ma, soprattutto, da Dio. Si sfidano come due rettili Mitja e il padre per l’amore di Gruseska; Smerdjakov, il figlio bastardo uccide il padre che non l’ama per ottenere in cambio almeno l’affetto del fratellastro Ivàn; Aleksej dopo la morte dello starec Zosima va per il mondo, cerca l’amore di Liza, vuole mettere in pratica la parola del Signore e trova la sua strada parlando a lungo e intensamente con i bambini. Ecco, il tema si focalizza, tra le pagine e pagine del libro è sempre costante la presenza dei bambini: proprio i bambini sono la chiave di volta per cercare di comprendere la grandezza di questa pietra miliare della letteratura mondiale. Troviamo il tema nelle parole di Ivan:
«Io so soltanto che il dolore esiste: gli uomini stessi sono colpevoli: era stato dato loro il paradiso, hanno voluto la libertà. Ma se tutti devono soffrire per riconquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano i bambini?».
Se Dio esiste come può permettere la sofferenza dei bambini? Proprio loro che a Lui sono più vicini, in loro che ancora splende l’innocenza che presto perderanno.
Ivan non può accettare l’idea, la semplice idea di Dio in un mondo dove c’è spazio per la sofferenza dei bambini, questo può essere possibile solo in un mondo senza Dio. Solo se Dio non esiste, l’uomo è Dio e tutto è permesso.
È Ivan il personaggio più concreto, più profondo, simboleggia la filosofia che non riesce a digerire lo scontro con il reale. È duro il muro contro cui cozza di continuo la riflessione, Ivàn è l’unico dei tre fratelli a non smettere di indagare in sé, è in lui che si sentono tutte le tribolazioni dell’anima. Guarda nell’abisso e sa che l’abisso guarda dentro di lui ma continua a scendere, in un mondo di parole e teoremi, la fede o le pulsioni della carne appesantirebbero la sua discesa. Ivàn ricorda Antonius Blok, il segaligno cavaliere del settimo sigillo di Bergman: sono entrambi uomini che non hanno paura degli specchi ma gli specchi gli regalano solo un riflesso vuoto, cercano entrambi Dio, incessantemente. Ed entrambi vorrebbero solo una cosa: la pace del cuore. Sanno anche come raggiungerla: uccidere l’idea di Dio, estirparla per sempre dalla loro testa con un ferro arroventato.
Aleksej ha sempre la fede e lo sa, tentenna solo una notte quando sta per lasciarsi andare alle calde e seriche promesse di Grusenka che gode nel prenderlo in giro per la sua insopportabile purezza; Mitja, di contro, ha scelto la passione, cerca di riflettere ma è sempre il suo lato più istintivo che ha la meglio. Né Aleksej né Dmitrji sono filosofi, hanno scelto due lenti per vedere il mondo che hanno i loro relativi vantaggi: la fede è un caldo abbraccio che impedisce di rompersi la testa in contorsioni mentali; la fisicità è una corazza debole ma è sempre una corazza, Dmtrij rinuncia alla theoria, rinuncia ad aprire gli occhi sul mistero sacro della realtà, vuole amare ma di un amore che la penna di Dostoevskji non descriverà mai, l’amore fatto di caldi sospiri e abbracci, corpi che si cercano e si trovano per scacciare la solitudine dei demoni del cuore (non c’è nemmeno una parola per la sfera sessuale, anche le mire del padre dei Karamazov sono avvolte in un cappotto di castità).
Scartata la fede e rifiutata la vita dei rettili che accomuna Fedor Pavlovic e Dmitrij, a Ivan resta solo la ragione, il pungolo della ragione che lo conduce presto a scontrarsi con i fantasmi della sua coscienza. Sceglie l’ateismo ma vuole disperatamente Dio (il dramma dell’ateo non è forse questo?), vuole essere amato da Dio e si rompe la testa nei suoi ghirigori di incidentali. Riesce a spiegare il mondo ma non riesce a capirlo. I bambini inchiodati sulla croce, i cani che divorano pezzi di pane imbottiti di chiodi scagliati da quegli stessi bambini che il freddo porterà alla tomba.
Prima di perdere la ragione e finire a dialogare con un simpaticissimo povero diavolo, Ivàn in una notte troppo lunga incontra Aleksej e gli narra un suo poema, la celeberrima leggenda del Grande Inquisitore, quella che è la summa di tutta l’opera di Dostoevskij e una delle pagine più importanti di tutta la storia dell’umanità. La leggenda offre molteplici interpretazioni, è un prisma in cui scomporci.
Cristo, tornato sulla terra nel XVI secolo, si incontra a Siviglia col grande inquisitore. Gesù è giunto nel mondo in silenzio, senza annunciarsi e il popolo infine lo riconosce, dai suoi occhi si sprigionano i raggi della Luce, del Sapere e della Forza. Compie il primo dei nuovi miracoli, ridona la vista a un vecchio, resuscita una bambina (il tema dei bambini, ripetiamo, è sempre costantemente presente). Il Grande Inquisitore ha visto tutto con i suoi occhi infossati in cui splende ancora una luce, come una scintilla di fuoco. Inizia la lotta di sguardi, le guardie conducono il Cristo davanti all’Inquisitore, gonfio come una sanguisuga delle grida degli eretici che bruciano a maggiore gloria del Signore.
Il processo è un monologo allucinato e nella sua lucida follia riecheggiano tutti gli incubi del controllo totale. L’uomo scarta il regalo di Dio, rifiuta un fardello insopportabile come la libertà, vuole solo sapere davanti a chi inginocchiarsi, vuole solo dissetarsi con mistero, autorità e miracolo.
La prima domanda sfavilla nella notte di Siviglia: «Perché sei venuto a disturbarci?», l’incubo di Gesù si è realizzato ma scopriremo ben presto che la follia dell’Inquisitore si fonda su una solida base. Il grande merito di cui si fregia l’Inquisitore è la soppressione dell’insopportabile libertà. Gli uomini non hanno mai voluto essere liberi, non è conciliabile l’aspirazione alla felicità con la libertà.
Gesù era stato avvisato in tempo, il signore del non essere, Satana, non gli aveva fatto mancare avvertimenti e consigli. Segue la profondissima analisi delle tre parole, le tre frasi che esprimono tutta la futura storia dell’umanità. Sono le tre tentazioni del deserto. Il Cristo le ha rifiutate, voleva che gli uomini lo amassero di un amore libero, non come schiavi riconoscenti, gli uomini dovevano scegliere tra i due abissi e scegliere liberamente. Gli uomini vogliono essere incatenati, non vogliono scegliere. E la Chiesa rinnovata scaccerà via i loro dubbi, offrirà loro pane e la coppa del mistero, saranno felici perché qualcun altro sceglierà per loro. L’inquisitore non riesce a reggere lo sguardo silente del Cristo, ecco il suo dramma: «Io non voglio il tuo amore perché nemmeno io Ti amo». L’inquisitore sa bene che il suo piano deve realizzarsi e si realizzerà proprio per l’intima natura dell’uomo, Gesù è di ostacolo, deve morire e stavolta deve essere per sempre.
Brucerà domani come tutti gli eretici, coloro che sono fuori dal tempo, quelli che non riescono a tenere il passo della storia. L’uomo schiavo è l’uomo felice, alienato ma felice. Il Cristo lo ha ascoltato, in silenzio, non l’ha interrotto mai.
L’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non venir piú… non venire mai piú… mai piú!”. Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.
Ecco la grandezza di Dostoevskij, l’uomo si danna per il silenzio di Dio e Dio risponde in silenzio con l’unica risposta possibile: l’amore. Lo stesso amore che Ivàn cerca disperatamente.
La lettura di Dostoevskij lascia mutati, attiva una nuova vista sul mondo.
Siamo partiti su una panchina di ferro nella Pietroburgo irreale delle notti bianche, seduti lì a cullare amori che forse durano solo un istante, quello che separa il dormiveglia dal sogno. Siamo finiti in fondo all’abisso, anelando il bacio muto di Dio. Non abbiamo gli strumenti per rispondere al dramma di Dio e dell’uomo, abbiamo solo dei semi per una futura riflessione:
« Se Cristo fosse pur solo il soggetto di un grande racconto, il fatto che questo racconto abbia potuto essere immaginato e voluto da bipedi implumi che sanno solo di non sapere, sarebbe altrettanto miracoloso (miracolosamente misterioso) del fatto che il figlio di un Dio reale si sia veramente incarnato. Questo mistero naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire il cuore di chi non crede».
Umberto Eco (con Carlo Maria Martini), In che cosa crede chi non crede?, Liberal, Roma 1996.
La foto è di Paolo Castronovo