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In questa seconda puntata, voglio raccontare un episodio non solo per rendere un merito a Gianni Cuperlo, ma anche per provare a indicare cosa ostacoli oggi la nascita di un nuovo gruppo dirigente della sinistra nel nostro paese.
All’indomani delle primarie dell’8 dicembre 2013, quelle per scegliere il segreario del PD, mi permisi di rivolgere un appello a Cuperlo affinché da quel momento, dopo quella sconfitta, si facesse pescatore di perle, cioè ricominciare un nuovo giro d’Italia per scovare tutti quei compagni e quelle compagne che potessero essere il nerbo di un gruppo dirigente di sinistra, fuori e dentro il PD, per costruire un’associazione che si ponesse l’obiettivo di riaggregare la sinistra italiana e non solo di costruire una sinistra interna al PD.
Chiesi allora a Cuperlo di assumere il ruolo di pescatore di perle, intendendo con esso il compito di scovare in giro per l’Italia tutte quelle forze che il tentativo berasaniano di ricostruzione di un nuovo e radicato partito di popolo aveva risvegliato nel paese, fra giovani e meno giovani, che però non erano stati valorizzati a sufficienza, soffocati dai soliti esponenti di un gruppo dirigente locale che ormai riproduceva solo se stesso e le proprie clientele pur dichiarando il proprio accordo con il segretario Bersani (non a caso abbandonato da quegli stessi per il nuovo segretario, per continuare a mantenere le rendite proprie e dei propri clienti).
Si trattava – dicevo allora a Cuperlo – di scovare le perle che non vogliono posti, ma desiderano studiare, produrre pensiero e iniziativa politica, radicamento territoriale e conflitto. Un gruppo dirigente che impari a studiare a fronte degli attuali dirigenti locali che forse hanno letto il loro ultimo libro al liceo, e a essere vicino ai compagni e alle compagne, rispetto a quelli che ormai passano tutto il loro tempo nel corridoi di federazioni sempre più vuoti di passione, umanità e progettualità del conflitto sociale.
Oggi abbiamo solo un insieme di assessori, consiglieri e segretari di partito che mirano a riprodurre se stessi e i vantaggi per i propri accoliti: strapuntini in consigli di amministrazione, posti di lavoro in cooperative o ex municipalizzate ecc… all’interno di una rete clientelare ancora molto vasta, nella quale ciò che conta è sopravvivere aldilà di qualsiasi opzione politica, di merito o valoriale. Il Pd, nato senza cultura politica, a parte un generico richiamo ai ceti medi e alla mobilitazione cognitiva, alle nuove professioni del mondo digitale e al loro spirito di innovazione e modernizzazione, fuori da qualsiasi contrapposizione tra capitale e lavoro, a cui si sostituisce un generico richiamo ai diritti del consumatore e a quelli umani, non poteva che essere il soggetto migliore per riprodurre notabili senza cultura e passione, assieme ai loro clientes. Un soggetto politico sempre meno bisognoso di radicamento territoriale e dirigenti in grado di rappresentare pezzi di società e vertenze, conflitti e modelli di mediazione tra lavoro, impresa e società non poteva che essere perfetto per un ceto politico post-ideologico, che utilizza l’agone politico per promuovere se stesso, sostenuto dalle varie clientele che si accontentano delle prebende loro elargite.
Sappiamo bene che a livello locale il PD è morto, senza più rappresentanza sociale e politica, annichilito da una cappa di doroteismo asfissiante, in cui la divisione tra correnti (che si accordano sempre su tutto) è solo da una parte, uno specchietto per le allodole per militanti che non voglio vedere la dura e dolorosa realtà e, dall’altra, lo schema entro il quale spartire cariche, prebende e briciole ad uso dei vari clientes.
Il partito unico della nazione di oggi, guidato da Matteo Renzi, non è che l’estremo risultato di un percorso iniziato con l’affermazione della laicità della politica e della sua tensione a essere post-ideologica e “concreta”, ed è perfetto per affermare appunto sempre più il nulla post-ideologico e la carica dei notabili che stanno riportando la politica a forme ottocentesche pur nella nostra iper/post-modernità. Si tratta di una ipermodernità in cui l’elemento dirimente è quello dell’abilità del leader “carismatico” a presentarsi con l’energia e il volto migliore per promuovere piattaforme programmatiche simili a quelle della destra che, a sua volta, non è più destra in senso tradizionale ma – al pari della sinistra – fautrice di un mainstream neoliberale e liberista, egemone anche culturalmente nella società.
In queste condizioni non circolano il pensiero, i sentimenti umani, la passione per le idee, la fratellanza nel nome di un’ideale, la vicinanza ai propri riferimenti sociali (che infatti non esistono più nell’indistinzione post-ideologica voluta e praticata).
Cosa dissi e cosa chiesi allora a Cuperlo lo scorso anno? Gli dissi che nel suo giro d’Italia congressuale non aveva in gran parte conosciuto le forze vive di sinistra (non solo del PD) che guardavano a lui – e prima a Bersani – con speranza e simpatia, in quanto tenute ai margini da parte di quel ceto politico disumano e immorale che utilizzava e utilizza le correnti solo per ordinare lo scontro tra notabili in una sorte di ritorno postmoderno all’Ottocento. Gli chiesi di rimettersi in moto per scovare le perle che negli ultimi anni il tentativo di Bersani aveva fatto crescere – nel caso dei giovani – o risvegliato – nel caso dei meno giovani – dopo anni di sonno forzato. C’era insomma una leva di potenziali dirigenti da valorizzare, a cui affidare le chiavi della ricostruzione dentro e fuori il PD, con l’obiettivo non soltanto di una corrente ma della riaggregazione di tutta la sinistra italiana. Insomma, se nella tal città non aveva conosciuto tizio o tizia, perché tenuto/a ai margini dai notabili, il suo incontro non era stato esaustivo e del tutto utile.
Fu un incontro bello, quindici compagne e compagni da tutta Italia, dai ventenni a cinquantenni, per conoscersi e farsi conoscere. Non si organizzarono cospirazioni, non si distribuirono incarichi né alcuno fece lo splendido per farsi notare dal “capo”: solo conoscenza, circolazione di idee e passione per la sinistra. Sono quindi nati rapporti tra persone che non si conoscevano e ancora oggi Cuperlo ha modo di sentire quelle persone e invitarle ai propri incontri pubblici, cosa che non sarebbe stata possibile a causa del filtro dei soliti noti. Fu una bella occasione anche per lo stesso Cuperlo, tanto che ebbe modo di citarci indirettamente nel corso di una direzione del PD, qualche giorno dopo, sul tema del partito.
Da quanto scritto finora sembrano esserci pochi motivi per essere ottimisti a proposito di quella ricostruzione di un gruppo dirigente. Io penso che vi sia ancora un elemento di speranza proprio perché esistono le perle, ci sono i compagni e le compagne che possono assumersi la responsabilità. Di questo dobbiamo ringraziare Pier Luigi Bersani e il suo tentativo di costruzione di un nuovo grande partito di popolo e radicato.
Il progetto della segreteria Bersani fu quello di ricostruire un partito di nuovo radicato a partire dalle ragioni del lavoro e non più incentrato sul leader carismatico, ma come soggetto collettivo e della mediazione, nella consapevolezza che l’uomo solo al comando non riesce a governare effettivamente, dal momento che solo un mix tra conflitto e mediazione produce governabilità, pur in presenza della crisi della democrazia rappresentativa che pure venne messa a tema (non è un caso che si riavvicinarono al partito intellettuali dimenticati da tempo, proprio per aiutare nel difficile compito di pensare la sfida di quella crisi della democrazia). Dopo tanti anni, si criticarono apertamente il liberismo e le politiche di austerità e la parola sinistra non fu più un tabù. Inoltre, l’incontro tra socialcomunismo e solidarismo cattolico divenne davvero centrale per la cultura politica del PD che cominciò ad attrezzarsi anche sui grandi temi dell’emergenza antropologica. Tanti compagni e tante compagne di sinistra si riavvicinarono al partito, delusi dalla cultura antipatica che ormai pervade le formazioni a sinistra del PD. Erano convinti che la recuperata centralità del partito avrebbe potuto rafforzare la sinistra del paese, perché solo l’organizzazione strutturata e radicata può tornare a rappresentare il lavoro, ad avere una visione del mondo e una cultura autonoma, che riporti la politica ad essere campo della lotta etico-politica, della costruzione del senso e della identità in una società sempre più frantumata e atomizzata dal neoliberalismo e messa in ginocchio anche materialmente dalla crisi. Quel pezzo di sinistra che provava simpatia per il tentativo di Bersani sapeva che su molti temi sarebbe potuto essere anche minoranza nel PD, ma allo stesso tempo anche essere riconosciuto alla pari in un partito di compagni e compagni che torna ad avere cultura, visione e identità, fuori dal leaderismo mediatico che non può invece tollerare minoranze, dibattito, organismi dirigenti ma solo un pugno di ripetitori dei voleri del capo.
Non voglio qui sviscerare la vicenda del PD bersaniano, enumerare meriti, colpe, responsabilità. Due fatti, però, vanno sottolineati. Il notabilato post ideologico e “ottocentesco” che tanto bene stava proliferando nel PD ha, da par suo, sostenuto Bersani nell’ottica dell’opportunismo legato alla logica del potere ma, allo stesso tempo, ha lavorato con sorda resistenza contro quel tentativo per arrivare al “tradimento” esplicito dopo le elezioni di febbraio 2013 (ho messo la parola tradimento tra virgolette perché in realtà non di tradimento si tratta, dal momento che esso presupporrebbe una fedeltà autentica che, in realtà, non c’è mai stata). Il secondo dato è quello invece della passione e della speranza, delle perle che ancora attendono di essere pescate o ripescate, a seconda dell’età. Quella passione e quella speranza sono ora un patrimonio affettivo della sinistra italiana, una sorta di energia spirituale che continua a rimanere in circolo. Certamente, quella speranza sembra essere disattesa dopo che Bersani e i suoi hanno dato il via libera con il loro voto parlamentare a riforme pesantemente di destra come quella costituzionale o del mercato del lavoro. In tutti rimane però l’affetto per Bersani, quasi che sembra non si possa avere motivi di risentimento nei suoi confronti proprio in virtù della grandezza del suo tentativo sconfitto e di quell’affetto rimasto in circolo.
Bersani rimane dunque una sorta di padre a cui non si riesce a volere male, anche se avremmo voluto da lui, a questo punto, la guerra di movimento (adeguata al momento) e non quella di posizione, a cui rimane ancorato per cultura e formazione.
Riprenderò, nella prossima puntata, la questione dei padri, dell’affetto e delle eredità al tempo della cosiddetta rottamazione.
Claudio Bazzocchi
@twitTagli
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