Un Obama per il nuovo Tibet?

Creato il 01 maggio 2011 da Milleorienti

Si apre una pagina nuova nella Storia del Tibet. Le elezioni politiche tenutesi nella comunità tibetana in esilio hanno portato alla nomina di un Premier che per la prima volta gestirà in proprio quel potere politico da secoli appannaggio dell’istituzione dei Dalai Lama. Il nuovo premier, Lobsang Sangay, è una figura per molti aspetti inedita (primo tibetano laureatosi in legge all’università americana di Harvard). Pochi giorni fa su questo blog Sonia (blogger di NamastéOltre)  si chiedeva: “chissà se Sangay possa essere un novello Obama?”. E’ una domanda che circola nel mondo dei sostenitori della libertà del Tibet, e a cui cerca di dare risposta questa analisi pubblicata da Piero Verni sul quotidiano Il Riformista. Buona lettura.

«Jampel Thosang, portavoce della Commissione Elettorale della “Central Tibetan Administration” ha annunciato ufficialmente ieri che Lobsang Sangay sarà il nuovo Kalon Tripa, vale a dire il Primo Ministro del Governo tibetano in esilio. Sangay è nato nel 1968 nella cittadina indiana di Darjeeling. Dopo un eccellente corso di studi in India nel 2004, primo tibetano nella storia, ottiene una laurea in legge nella prestigiosa università di Harvard. E’ un esperto di legislazione internazionale ed in particolare della politica cinese contemporanea e degli aspetti legali del problema tibetano. Nel 2003 e nel 2009 ha organizzato, proprio ad Harvard, due importanti incontri tra il Dalai Lama e alcuni studiosi cinesi di alto livello. Nel 2007 ha preso parte al “World Justice Forum” tenutosi in quell’anno a Vienna.

Lobsang Sangay

Oggi, eletto con il 55% per cento dei voti, si appresta a divenire il Kalon Tripa del primo governo tibetano dal 1642 a non essere presieduto da un Dalai Lama. Un governo in esilio e non riconosciuto formalmente da alcuna nazione del mondo (nemmeno dall’India che pure lo ospita), però un governo che è l’unico ad avere legittimità agli occhi della stragrande maggioranza dei tibetani dentro e fuori il “Paese delle Nevi”.

Lobsang Sangay dovrà farsi carico degli enormi problemi inerenti alla questione del Tibet senza poter contare sull’ombrello protettivo del Dalai Lama il quale sta per trasferire sulle spalle di questo giovane Primo ministro l’intero peso delle sue responsabilità secolari. Mossa che se da un lato renderà ancor più difficile il compito di Sangay, è però di estrema intelligenza politica. Infatti rischia di vanificare sul nascere il piano cinese di nominare un Dalai Lama di regime il giorno in cui l’attuale dovrà “lasciare il corpo”. Perché era proprio pensando a un tale scenario che nel 2007 Pechino aveva approvato una legge secondo la quale unicamente il governo centrale può avere voce in capitolo sui riconoscimenti delle reincarnazioni dei religiosi tibetani. Non a caso la recente decisione del Dalai Lama ha mandato  su tutte le furie i dirigenti del Partito Comunista che lo hanno accusato di snaturare e pervertire le tradizioni religiose del Tibet.

Lobsang Sangay, che Pechino definisce un “terrorista” per una sua giovanile militanza nell’organizzazione “Tibetan Youth Congress”, si appresta a ricoprire la carica quinquennale di Kalon Tripa in un momento in cui i rapporti tra tibetani e cinesi sono più tesi che mai. Come dimostra la non risolta crisi del monastero di Kirti dove pochi giorni fa la polizia cinese ha ucciso a bastonate due anziani che insieme ad altri dimostranti cercavano di impedire la deportazione di centinaia di monaci ritenuti colpevoli di “attività sovversive”. Oltre venti anni di politica moderata del Dalai Lama non sono riusciti ad ottenere la benché minima apertura da parte di Pechino. Lobsang Sangay ha più volte dichiarato di essere intenzionato a portare avanti questa politica moderata ma non sarà un’impresa facile. Infatti solo il carisma e la profonda venerazione di cui gode il “Prezioso Protettore” avevano convinto la maggioranza dei tibetani a rimanere fedeli, nonostante tutto, alla “Via di Mezzo” che prevede la rinuncia all’indipendenza in cambio di una genuina autonomia. Però domani cosa succederà? In esilio e nel Tibet occupato sembra infatti aumentare il numero di quanti chiedono una posizione più radicale e intransigente.

Lobsang Sangay è senza dubbio un uomo di valore, esperto e intelligente. Ma di fronte alle algide chiusure di Pechino e alle sue violente repressioni sarà per lui un’impresa titanica convincere i tibetani a continuare a credere che sia possibile un autentico dialogo con la controparte cinese. In un comizio tenuto durante la campagna elettorale Sangay espresse, sia pure in forma di battuta, la speranza di poter diventare una sorta di “Obama cinese”. Nobile intenzione ma rischia di infrangersi sugli scogli acuminati di quelle che Marx soleva definire, “le dure repliche della storia”».


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