Quando in Italia si vede qualcuno con il viso triste e poca voglia di parlare, di solito si chiede con una certa ironia: "Ma cos'hai, ti è morto il gatto?" Certe volte questa domanda risulta decisamente inopportuna, quindi il mio personale consiglio è: non fate questa domanda. O per lo meno non la fate a me oggi. Il mio gatto si chiamava Teresa ed era con la mia famiglia da 10 anni.
C'era un pittore in Italia, un grande artista, che si chiamava Antonio Ligabue (1899 - 1963). Ligabue era un istintivo, un passionale, un diverso. Fu rinchiuso in manicomio perché considerato da tutti troppo strano, imprevedibile e violento. Ci rimase in tutto 7 anni. Quando però i critici d'arte si interessarono alla sua pittura e iniziarono a creare un personaggio attorno all'artista, tutti lo considerarono ad un tratto un genio. I critici possono mettere agli artisti tutte le etichette che vogliono (la più gettonata per Ligabue è "naif"), ma lo sconvolgimento d'animo che provoca un'opera d'arte non si può per fortuna definire in una formula convenzionale. E Ligabue mi sconvolge, mi trascina verso la parte più primitiva di me e qualche volta, lo confesso, questo mi fa paura.
Questa è una piccola opera dipinta ad olio che appartiene ad un collezionista privato, ma la si può vedere in mostra fino alla fine di settembre alla Fondazione Terzulli Villa Regina Margherita di Bordighera (Imola), insieme ad altre opere di Ligabue e di altri grandi maestri del Novecento italiano.
E questa meraviglia la dedico a Teresa.