Sì l’Europa poteva apparire con una garanzia di pace e di democrazia, come un insieme solidale nel quale si sviluppava una concezione avanzata di stato sociale e last but no least anche come un’ unione in grado di contenere lo strapotere degli Usa. Ma tutto questo ha funzionato fino alla caduta del muro di Berlino: quando si è fatta strada l’illusione che la storia fosse finita con un solo vincitore perenne i geni maligni che erano stati introdotti nel dna della concezione e creazione europeista hanno cominciato a svilupparsi e a far sentire tutto il loro influsso e la potenziale farfalla è diventata definitivamente bruco.
Il primo gene del tutto estraneo all’idea diffusa di Europa politica in difesa delle libertà e progressista, sia pure nei limiti del keynesismo, è quello presente fin dai tempi della prima guerra mondiale: l’idea di una pace perpetua fondata esclusivamente sul mercatismo e su una concezione elitaria della governance. Infatti , in termini moderni il progetto di un’unità del continente nasce dopo l’inutile e orrenda carneficina della prima guerra mondiale da Louis Loucheur, ingegnere e imprenditore vicino a Clemenceau, coordinatore dello sforzo bellico francese oltre che della successiva conversione industriale transalpina e soprattutto dal conte austro ungarico Richard de Coudenhove-Kalergi. Quest’ultimo nel 1922 scrive un libro, Paneuropa, ein Vorschlag (una proposta) destinato ad avere una certa fortuna. La sua domanda è: come evitare future guerre in Europa? E la risposta è quasi profetica nel senso che ricalca la creazione della Ceca, ovvero la comunità del carbone e dell’acciaio primo passo sulla strada dell’Unione: dal momento che i conflitti richiedono enormi risorse risorse industriali allora mettendo tali risorse sotto un’autorità comune -non condizionata da elezioni – nessuna delle grandi potenze potrà preparare la guerra. Se la Germania e la Francia delegassero a un’autorità binazionale la gestione di carbone acciaio ecco che sarebbe per loro impossibile entrare in conflitto. Coudenhove-Kalergi quindi fa un passo avanti e riprende le idee espresse in un libro del 1918 da Giovanni Agnelli, Federazione europea o Lega delle nazioni? in cui l’industriale italiano vagheggia la creazione di un forte governo continentale per contrastare il revanscismo delle nazioni. Tanto forte da poter essere di fatto una sorta di dittatura.
Il secondo dopoguerra vede tutto questo tradotto in qualcosa di più politico che di solito viene attribuito al Manifesto di Ventotene, testo ultracitato, ma pochissimo letto in cui i due autori ufficiali, Spinelli e Rossi, assieme agli altri due ispiratori, Hirschmann e Colorni si dà sostanzialmente un’interpretazione più aggiornata, più consapevole delle precedenti idee, ma in fondo più radicale: agli stati uniti di Europa si può arrivare certo attraverso lo spazio economico, ma anche avviluppando la democrazia dentro un meccanismo elitario sovranazionale che impedisca, per dirla in parole povere, gli smarrimenti dei popoli, la loro propensione al nazionalismo e alla demagogia. Insomma la visione è quella di un governo europeo degli ottimati e alla fine dei magnati. Pensiero piuttosto ambiguo, nel quale a mezzo tra Adam Smith, il socialismo utopista e Benedetto Croce, si pensa che i problemi sociali siano risolvibili annullando la sovranità degli stati, la loro volontà di potenza (e le relative spese belliche) in una visione dove viene negato ed escluso ogni conflitto di classe o conflitto economico . Qualunque fossero le intenzioni concrete degli autori è questo il pensiero che è passato e che è stato mirabilmente ed etilicamente sintetizzato nel 1999 (anno dell’entrata in vigore dell’euro) dall’attuale presidente della commissione Ue, Juncker in una celebre intervista allo Spiegel in cui spiega il modus operandi su scala continentale: “Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”.
Tutto ciò avrebbe avuto pochi o nessun effetto pratico se l’Europa intera distrutta dalla guerra non fosse stata territorio di contesa tra le due superpotenze vincitrici: è questo che inserisce il secondo gene maligno, la nascita dell’Europa come strumento di contrapposizione, carattere che si evidenzia oggi in maniera chiarissima nella vicenda Ucraina. Alla fine del conflitto ritroviamo Coudenhove-Kalergi a tessere rapporti con gli Usa per convincerli a imporre un’organizzazione federale dell’Europa. Cosa che trova orecchie attente soprattutto in Allen Dulles, insomma tra i ragazzi della Cia e viene sponsorizzato da Winston Churchill che parla di Stati uniti d’Europa nel settembre del 46 all’università di Zurigo. L’idea non parte da una visione di largo respiro, ma solo dalla necessità di contrapporre un blocco più ampio possibile all’Urss, blocco sotto la tutela degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, nel quale i singoli stati mettono in comune alcune risorse sotto la sorveglianza e anzi il governo delle due potenze anglosassoni. Quindi qualcosa che riprende il mercatismo di Kalergi inserendolo in un progetto neo coloniale. Nel gennaio del ’47 Churchill crea il Comitato provvisorio per l’Europa Unita e in marzo il congresso Usa vota una mozione di sostegno del progetto anche in vista delle “tendenze espansionistiche del comunismo”. Ma è un periodo dove la creazione di comitati e di progetti di alleanze non conosce soste e dove soprattutto esiste la massima confusione, peraltro voluta, in cui prevale l’obiettivo di creare una sorta di massa critica europea capace di sottrarre, in quella situazione ancora fluida, gli stati dell’Est alla tutela sovietica.
Tutto cambia quando nell’agosto del ’49 l’Urss fa esplodere la sua prima bomba atomica: il presidente Truman si convince che ormai il mondo è diviso fra due superpotenze nucleari, tra due blocchi e questo rimette in gioco i piani fatti precedentemente: si preme sull’acceleratore della Nato (che nasce come primum rispetto a qualsiasi trattato europeo) e contemporaneamente si cerca di creare un organismo più solido. Soprattutto si cerca una fedeltà politica. Così nella primavera del 1950 gli Usa affidano a Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con il merito di essere anche membro soprannumerario dell’Opus Dei, oltreché collaboratore di Petain nella Francia filonazista di Vichy, il compito di proporre la messa in pratica delle idee di Coudenhove-Kalergi lanciando la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nella quale entrò anche l’Italia che aveva pochissimo carbone e poco acciaio, ma che era strategicamente indispensabile in quanto territorio di confine geografico e politico. L’anno successivo fu firmato il trattato. Nel 57 arrivò il Mec o mercato comune con il Trattato di Roma che ancora costituisce il nucleo fondamentale dell’Unione. Poi il trattato di Lisbona del ’92 che sancisce i principi liberisti, reso appositamente complicato perché non potesse facilmente prestarsi a un referendum e infine l’Euro che in effetti è stato assurdamente concepito come una prosecuzione di quel mettere sotto un’autorità indipendente le risorse. Solo che in questo caso sono risorse monetarie e non funzionano come il carbone. Tutti passi da cui i cittadino sono stati accuratamente esclusi dalle decisioni compreso quello ancora da siglare ufficialmente, ossia il Trattato transatlantico.
Naturalmente mi sono limitato all’essenziale. Ma quello che mi premeva di mostrare è che la creatura europea difficilmente si potrà trasformare in un soggetto politico e davvero democratico: le tare che si porta dietro sono troppo vistose ed è inutile tentare la respirazione bocca a bocca. Occorre un salto di qualità che è difficile immaginare nella situazione attuale e soprattutto occorre una riedificazione completa alla luce di altre idee e anche di un mondo che è completamente cambiato dal dopoguerra e nel quale l’Europa appare come una balena spiaggiata, senza voce, senza unione se non quella di una allucinante moneta, senza democrazia e in balia della tempesta. Occorre rifarla dalle fondamenta questa casa comune che oggi è diroccata e invece di essere uno scudo contro la speculazione, gli egoismi nazionali, le dislocazioni dei poteri mondiali, lo sfruttamento sembra esserne vittima ancor più delle “piccole patrie”. E in qualche caso anche promotrice. E’ anche su questo che il voto dei greci avrà un’importanza cruciale, lo voglia o meno Tsipras.