Un paese (de)genere. L’Italia di Suburra

Creato il 11 novembre 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Quando nel 2013 esce Suburra il libro di Bonini e De Cataldo, da cui è tratto il film di Sollima, i fatti di mafia capitale non sono ancora di pubblico dominio e pertanto le similitudini che esistono tra il libro e il film sono da ascrivere al caso, all’intuito degli autori o forse alle voci che circolavano nell’ambiente del crimine e dei magistrati. Fatto sta che il film si trova a descrivere il malaffare di Roma con sorprendente puntualità rispetto all’inchiesta che ha scoperchiato il nesso criminale che legava cooperative rosse e bianche, politici di destra e di sinistra, sotto l’egida di personaggi che fungevano da congiunzione tra il mondo del crimine a quello della politica. Le similitudini di maggior impatto sono soprattutto quelle formali e iconografiche (come la figura del “Samurai” che richiama quella di Carminati o la collocazione dell’azione lungo il litorale di Ostia). Nel film la corruzione è legata alle classiche pressioni per le modifiche del piano regolatore mentre mafia capitale è incardinata soprattutto sugli appalti per la gestione dei servizi pubblici. A voler stare al merito, occorre ammettere che le vicende di Suburra sono animate da personaggi tagliati con l’accetta, perfetti cliché del mondo del racconto di genere, e potrebbero essere giudicati come troppo ristretti per descrivere l’intreccio politco-criminale del presente: non hanno una dimensione dialettica, non esprimono una dinamica tra interessi contrastanti bensì sono un’istantanea, esprimono un dato immutabile, appunto un cliché.

I politici di Suburra sono ciniche e disgustose maschere che, dietro una facciata di rispettabilità basata sul più spudorato perbenismo, nascondono appetiti famelici, in nome dei quali sono disposti a qualunque compromesso. Dentro di loro non c’è conflitto, sono assenti sfumature, sono solo un branco di “mostri”. Gli stilemi narrativi di Suburra sono quelli del genere crime e non certo quelli dell’indagine sociale e politica. Ma è proprio su questo limitare, su questa presunta ed evidentissima debolezza che sta l’utilità e la plausibilità del film. L’Italia è ormai un paese privo di dialettica sociale, senza una vera narrazione politica; le strategie di governo proposte dalla classe politica rispondo a più a visioni emotive, psicologiche e morali della realtà che non a vere strategie di sviluppo.

Ed è proprio per questa palese inadeguatezza che il nostro ceto politico, per essere contrastato, non merita neppure una lettura politica, per  la sua comprensione sono sufficienti i più poveri e semplificati stilemi del cinema di genere che, a differenza di quelli del cinema politico, conservano la capacità di raggiungere e stimolare un più ampio pubblico. In sostanza siamo di fronte allo slittamento della dialettica politica, dal piano semantico a quello meramente iconografico. Ad una politica fatta solo di simboli e slogan ormai si può risponde anche con un film fatto solo di pure immagini. Così facendo, alla controproposta e all’opposizione sociale si sostituisce semplicemente lo sdegno e la rabbia. Può sembrare poco ma forse non lo è se si pensa all’attuale panorama sociale e politico che è privo di narrazioni più mature.

Se lo stile crime di Suburra è adatto a descrivere ed utile a provocare il pubblico, resta però da capire se ha la capacità di rendere la drammaticità della realtà. Su questo interviene la ricerca stilistica di Sollima che sul tema della rappresentazione della violenza ha sviluppato un percorso originale ed interessante, le cui tracce si ritrovano già in ACAB (2012), film che fa da spartiacque tra Romanzo criminale – la serie (2008- 2010) e Gomorra – la serie (2014). Se in Romanzo criminale la violenza aveva un valore puramente estetico (pura permanenza nella narrazione di genere) e chi la compiva non veniva minimamente diminuito dal suo compiersi e, anzi, ne traeva fascino (narrazione amorale), in ACAB la violenza diviene problematizzata e chi la compie ne possiede tutte le valenze: non è la violenza che definisce il soggetto che la compie ma è questi a definire il livello e le modalità di compierla. Questa consapevolezza è conservata in Gomorra in cui si riesce a dare profondità e umanità ai personaggi, pur facendoli permanere su un piano di colpevolezza morale. In Suburra la narrazione resta pienamente morale e la piattezza dei personaggi se è un limite di ricerca e di scavo, è una giusta antitesi ad un ceto politico piatto e inetto. Per raggiungere questo livello di drammaticità e di credibilità c’è un evidente lavoro sulla recitazione degli attori che, pur provenendo in larga parte dal mondo della fiction, riescono a prodursi in una recitazione essenziale, priva di sottolineature ed enfasi tipiche di quel registro. Al lavoro di scavo sui personaggi si supplisce con un’intensa attenzione alla fotografia, alle ambientazioni e alle inquadrature che restituiscono una Roma estetizzata che emana una potente luce decadente. Certo, Roma non è solo questo. Non è solo oltraggio alla sua storia millenaria, violenza diffusa e decadente bellezza. Ma di certo è anche questo ed è molto più vicina al vero questa Roma che non quella fittizia e demodé di Sorrentino de La grande bellezza (2013). La Roma di Sollima emette nella lunga notte buia e piovosa  intensi bagliori di luce dorata, metafora di uno sprofondamento morale che inghiotte ogni umanità ed ogni speranza pur non riuscendo a dimenticare l’antica bellezza che l’avvolse. Ed in questo c’è molto di vero.

Pasquale D’Aiello



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