S. Kubrick, Circus scene for Look Magazine 1948
Il treno Verona-Lecce partiva alle 22.40.
Arrivava dal Brennero già stracolmo di emigranti al rientro.
Il viaggio durava 14/18 ore – a seconda dei ritardi – durante le quali si stava tutti stipati in vagoni fumosi, senza aria condizionata.
A Bologna il primo stop di un paio d’ore: la gente scendeva a sgranchirsi le gambe e a fumare.
E io pregavo forte che i signori della mia carrozza perdessero la coincidenza.
Non capitava mai.
Anzi, capitava piuttosto che qualcuno, per accaparrarsi l’intero vagone, si chiudesse dentro e non facesse più entrare.
Un anno il treno era così pieno che non si poteva respirare: la gente dormiva nei bagni, davanti le porte per salire e persino nei vani portavaligie. Mio fratello e io eravamo accompagnati da un quasi cugino studente di medicina.
Due bambini di 5 e 7 anni accompagnati da un fidato conoscente poco più che ventenne.
La situazione divenne presto insostenibile: fu così che per tranquillizzarci mio cugino sdraiò degli asciugamani per terra in corridoio e ci preparò un giaciglio per dormire. Rimase tutto il tempo a vegliare su di noi, appollaiato su un improbabile seggiolino, affinchè non ci calpestassero. Un eroe.
Nonostante i disagi, di quel viaggio ricordo solo l’odore forte di umanità e i sorrisi della gente.
Con noi erano tutti gentili: le donne ci offrivano panini con la fettina e cioccolate chi veniva dalla Svizzera.
Nell’aria aleggiava una piacevole sensazione di festa.
Nel disagio del corridoio si era creata una piccola famiglia. Grande come tutta la Penisola.
Nel corridoio si parlavano tanti dialetti che non capivo, con accenti di francese e di tedesco. Gli uomini con i baffi raccontavano della loro vita in esilio a fare lavori di fatica. Ma su quel treno erano uomini felici perchè stavano tornando dalle loro famiglie, nelle loro case. Alle loro vite.
Ed è così che ho imparato che basta poco per non sentirsi stranieri.
Ma che per spiegarlo si devono per forza usare parole in dialetto.