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Un Paese sempre più disunito: ecco cosa dicono i dati Svimez 2015

Creato il 09 agosto 2015 da Laotze @FrancoTorre1953

Nella direzione di venerdì scorso del PD Renzi ha chiesto al suo partito di preparare, per metà settembre, un master plan per rilanciare il Sud Italia.

E così, dopo appena 154 anni dalla creazione dell'Italia unita, siamo ancora alle prese col problema del Mezzogiorno.

Cambiano i termini coi quali se ne parla (oggi, l'eterna retorica nazionale viene arricchita con l'ormai immancabile, e ridicolo, ricorso a termini inglesi), ma non il problema, che più passa il tempo e più diventa difficile da risolvere.

Ammesso e non concesso (come direbbe Totò) che lo si voglia risolvere per davvero.

Ricordo, nella mia esperienza lavorativa, che il segnale della mancanza di volontà di risolvere un problema era la creazione di gruppi di lavoro destinati a risolvere quel problema: come ho potuto più volte direttamente constatare, la creazione di inutili gruppi di lavoro è la sola cosa che sanno fare quelli che non sono in grado di fare quello che c'è da fare.

Quello del Mezzogiorno è un problema che in un secolo e mezzo non solo non è stato risolto ma che anzi, col tempo, è aumentato sempre di più, con la parte d'Italia annessa sempre più lontana, separata dall'altra da una distanza (non solo materiale) sempre maggiore, incolmabile.

Ma la cosa che trovo davvero surreale non è tanto sentire parlare dell'Italia come di un Paese unito (quando è sempre più evidente la sua disunità) quanto sentire quelli che cadono dal pero dopo la pubblicazione dell'ultimo rapporto della Svimez 2015 sull'economia del Mezzogiorno (o meglio, delle anticipazioni sui principali andamenti economici da quel rapporto).

Come se occorresse leggere quei dati forniti dalla Svimez per rendersi conto della deriva del Mezzogiorno, della sua condizione di sottosviluppo, diventata ormai permanente.

Come se non fosse sufficiente andare in giro per il Mezzogiorno, percorrerne le strade, usarne i mezzi pubblici (a cominciare dai treni), visitarne gli ospedali, per rendersi conto di come stiano in realtà le cose.

E come meravigliarsi di questa mancanza di conoscenza delle reali condizioni del Mezzogiorno se il Conte di Cavour, il regista della creazione dello Stato unitario, non lo visitò mai?

Contro la retorica nazionale, i dati forniti dalla Svimez parlano di due Paesi, nettamente distinti e sempre più distanti (per non dire estranei).

Nessuno, tra i tanti commentatori, che dica come questi dati siano la migliore prova del totale fallimento del progetto di Stato unitario, del totale fallimento della politica, nazionale e regionale, nessuno che spieghi lucidamente (senza indossare la maglietta del tifoso) perché si sia arrivati a questo punto.

Nessuno, per esempio, che dica chiaramente da cosa derivi l'incapacità del Sud di utilizzare i fondi strutturali a sua disposizione, nessuno che spieghi perché la Sicilia è la regione italiana nella quale il rischio di povertà è più alto, nessuno che dica perché, sulla base delle previsioni dell'ISTAT, il Mezzogiorno sarà sempre più soggetto al fenomeno dell'emigrazione (nel documento Svimez si parla di una perdita di popolazione che supererà il 20% di quella attuale).

Se davvero si vuole risolvere un problema la strada da seguire è una sola, chiara, semplice: analizzare a fondo la situazione, individuare le cause, rimuoverle.

Il problema del Mezzogiorno italiano appare però segnato, fin dal 1861, dall'evidente mancanza di volontà di risolverlo (la strada non va mai oltre la prima fase, quella dell'analisi della situazione).

Ne è conferma il modo col quale lo si è sempre affrontato: da un lato un dibattito infinito sulle cause, alla continua ricerca della causa prima (c'è sempre una causa che precede le altre) e troppo spesso caratterizzato da una sterile contrapposizione di ideologie (vittimismo contro colpevolismo), dall'altro l'assenza di indicazioni di misure concretamente praticabili (quasi sempre le soluzioni presentate hanno la consistenza dei sogni).

In questa discussione infinita gl'interessi di alcuni gruppi, mossi da motivi concreti (penso, per esempio, a chi, nel Mezzogiorno, amministra la spesa pubblica) si mescolano, in maniera inestricabile, con i ragionamenti di tanti intellettuali che, al contrario dei primi, non s'interessano minimamente dei fatti concreti e si limitano a parlare di idee.

Ci sarebbe bisogno di una riforma morale, dicono, accanto ad una economica.

Già, ma chi dovrebbe farle queste riforme?

Dov'è la classe dirigente (politica, imprenditoriale, industriale) che dovrebbe indicare la strada da percorrere?

E poi, a chi dovrebbe indicarla?

A chi è convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili (per cui non si capisce proprio cosa dovrebbe spingerlo a cambiare)?

O a chi vive abbracciato ad un passato mitizzato (che nella maggior parte dei casi conosce solo per sentito dire), nell'illusione di esserne erede?

O a chi individua sempre all'esterno, fuori da sé, la causa dei suoi mali? (senza chiedersi, per esempio, con riferimento alla Sicilia, da chi sia stata amministrata la Regione Siciliana nei suoi quasi settant'anni di vita).

Sicuramente sono tanti i cittadini meridionali che soffrono per come sono amministrate le regioni nelle quali vivono, ma altrettanto sicuramente sono tanti anche quelli che, proprio grazie a come quelle regioni sono amministrate, godono di privilegi che non sarebbero possibili con un'amministrazione efficiente, equa, giusta (in Sicilia si calcola in 120.000 il numero delle persone che, direttamente e indirettamente, campano grazie a quella distributrice di danaro pubblico che è la Regione Siciliana).

Credo proprio, conoscendo la storia di questo Paese, e avendolo girato a lungo (dalla Valle d'Aosta a Lampedusa, dal Colle di Cadibona al Carso) che manchino le condizioni per pensare, credibilmente, ad un futuro del Mezzogiorno diverso da quello al quale inevitabilmente è destinato (condannato) dal suo passato.


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