Qualche dubbio sulla bontà di questa affermazione, sarebbe già dovuto sorgere in molti, dati i risultati disastrosi che la precarizzazione del posto di lavoro ha portato all'Italia ed è basata, sostanzialmente, su due menzogne.
1. Il contratto a termine è l'anticamera del contratto a tempo indeterminato. Poteva anche essere vero nei primi tempi, ma ha cessato ben presto di esserlo e non a causa della crisi, come molti sostengono. Quasi da subito, infatti, i contratti a tempo determinato hanno cominciato ad erodere terreno, avviandosi con decisione verso il sorpasso, come certificato dall'Istat nell'estate del 2013, con il crollo dei tempo indeterminato al 53% del totale della forza lavoro italiana. Un discesa costante e che non accenna a fermarsi.
Ultimamente, poi, ci ha pensato anche l'UE a smentire i fan della flessibilità: nel rapporto trimestrale sull'occupazione, infatti, si legge che, in Europea in generale e nei Paesi del Sud in particolare (Italia compresa), si è riscontrato un calo drastico dei contratti a tempo indeterminato, mentre aumentano sempre più i contratti precari ed i part-time che, il più delle volte, non sono seguiti da nessuna stabilizzazione lavorativa.
2. Il costo del lavoro. E' la seconda menzogna su cui si basano le politiche precarizzanti: Articolo 18, contributi salariali e welfare sono le zavorre che rendono il mercato del lavoro troppo rigido e costoso, togliendo competitività all'Italia. Niente di più sbagliato. Da parecchi anni, ormai, il costo medio orario di un lavoratore italiano è in lento, ma costante calo, tanto da essere sceso al di sotto della media europea: 28,1 € l'ora (tenendo conto sia del salario che delle tasse) contro i 28,4 dell'intera area europea, collocandoci in una posizione di medio-bassa classifica.
Eppure, la disoccupazione macina record (salita al 13% nei primi mesi del 2014), sempre più imprese italiane delocalizzano all'estero e quelle straniere si guardano bene dall'investire nel nostro Paese e il motivo ce lo rivela l'Eurostat: siamo quarti, in Europa, nella classifica della tassazione più alta sui salari. Stipendi bassi e tasse alte, quindi: proprio un bel connubio.
Un connubio, però, che non è certo figlio dell'Articolo 18, nè dei contratti a tempo indeterminato, nè del sussidio di disoccupazione, ma della malapolitica che ha generato sprechi e corruzione, problemi che ora i partiti stanno gettando sulle spalle dei cittadini e dei lavoratori, utilizzando strumenti come il precariato, la cui ultima incarnazione, in ordine di tempo, è il Jobs Act renziano.
Il progetto del rottamatore sta entrando nel vivo, grazie alla stesura del decreto legge da parte del Ministro del Lavoro Poletti, che – fortunatamente – sta incontrando numerose critiche e resistenze, anche all'interno della stessa maggioranza di Governo.
Le perplessità maggiori derivano, soprattutto, dalla durata dei contratti a termine (36 mesi) e dal numero massimo di rinnovi (fissato in 8), tanto che la minoranza Pd, guidata da Cuperlo, sta preparando un proprio documento: durata dei contratti precari fissata a 24 mesi, numero dei rinnovi ridotto e incentivazione alle assunzioni a tempo indeterminato.
Il Ministro Poletti apre uno spiraglio al dialogo, ma neanche tanto grande: il succo del decreto legge, che porta il suo nome, non si discute, sostenendo che, ormai, è solo attraverso il contratto a termine che i lavoratori, soprattutto i giovani, riescono ad entrare nel mercato del lavoro. Purtroppo ha ragione da vendere: è la deriva cui è andato incontro il nostro sistema, è la grande beffa che ci hanno rifilato, con un paio di menzogne.
Danilo