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Ragion per cui questa non è una recensione (ammesso che le altre lo siano), non è né parziale né imparziale, è un atto d'amore per lo Studio Ghibli che ha creato un mondo coerente, una firma sicura per un patto di stupore con i suoi affezionatissimi spettatori.
La novità più straordinaria di Porco Rosso rispetto ai precedenti titoli di Hayao Miyazaki consiste in un'ironia pervasiva e dolce, corretta e mai stucchevole, un'ironia della meraviglia. Rispetto ad altri autori, Miyazaki non punta su un'esattezza realistica dei dettagli, eppure tutto si può dire tranne che i disegni siano vaghi o non rifiniti: con di un barocco contegnoso e garbato, si direbbe che del regista è fin la meraviglia.
Difficile capire chi siano i buoni e i cattivi. Non c'è dubbio per chi tifi lo spettatore: per il bell'aviatore Marco Pagot dalle fattezze di maiale dopo un incidente avuto durante la prima guerra mondiale, e per l'entusiasta Fio Piccolo, la giovanissima ragazzina che progetta e ripara il suo idrovolante. Ma ancora più certo è il divertimento che nasce dal confronto tra due eterni nemici, la battaglia aerea e l'improvviso innalzarsi di aerei come aquiloni.
Nella dolcezza ventosa di queste immagini come lievitate, si cela spesso un dolore straziante, una malinconia irrisolta nei confronti della morte - contro cui si agiscono il sorriso infinito della ragazza e il desiderio che suscita nei pirati del cielo. Ma questo è risaputo e, direi, una cifra stilistica del cinema dello studio Ghibli (e che, per esempio, ha un corrispettivo ancora più suggestivo e drammatico nell'indimenticabile Una tomba per le lucciole di Isao Takahata).
Ciò che, invece, un bambino eterno come me non smetterà mai di apprezzare è altro: è la dimensione meccanica sempre presente nei film di Miyazaki, come se tutto dovesse essere avviato, e - insieme a macchinari non sempre a puntino o ben oleati - innanzitutto la fantasia. Un invito a impegnarsi per la propria fantasia, a immaginare con esattezza (ma qui rubo una formula di Amitav Ghosh, ne Le linee d'ombra).
Non parlo del lavoro: è evidente che il lavoro - già nel celeberrimo La città incantata - ha un che di buffo e faticoso, di lento e sbuffante. Mi riferisco proprio alla macchinosità messa in campo quando si tratta di avviare la facoltà di vedere il mondo - di fare il mondo - con quell'ingenuo - e creativo - desiderio che sia diverso da quello che gli altri vogliono farti credere che sia. Meno patinato, meno tecnologico, più tattile, più alla portata dell'uomo e delle sue mani.
Solo così, una ragazza tanto giovane come Fio, riesce a far volare un frivolo catorcio; solo credendo di poter vivere davvero, Marco Pagot non si arrende e non si adagia, bensì si innalza in volo nel suo essere diventato, per tutti, quel che è: Porco Rosso.
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