lunedì 26 novembre 2012 di L'Abattoir
di Agata Faraone
Ormai non inizio a scrivere se non imposto l’interlinea su 1,5, che mi sembra la più scaltra e la più accogliente, come una suite di lusso delle parole. L’interlinea 1,5 è il risultato di mesi a contatto visivo con l’impaginazione della tesi di laurea, ciò che fondamentalmente mi è rimasto e che non serve neanche perché se pubblico sul web non c’è che la soffocante e appiccicaticcia interlinea singola. Che è come dire che è rimasto solo il ripostiglio nell’hotel a cinque stelle. E devi anche lavare i piatti prima.
A meno che non invii direttamente a qualcuno il pdf del monologo che hai deciso di regalargli (perché, mai mai mai, mandare il formato word et similia. Il pdf, col suo essere immodificabile, mi sembra come il Verbo dei formati), simpaticamente trasferendogli il file nel suo dispositivo con USB con spostamento di speranze elettroniche che resteranno disattese quando il tale che la vita ti ha fatto credere buon destinatario addirittura di un pfd di grandezza media, ecco, è allora dicevo che siccome la vita ti ha fatto pensare che- e invece no: probabilmente lo ha rimosso dalla sua memoria, sia cerebrale che virtuale, prima ancora che tu abbia avuto il tempo di trastullarti immaginando la sua reazione nel leggerlo. Grosso errore.
In fondo meglio così, non ero neanche più d’accordo con quello che c’era scritto dentro. Ma che poi dico io come si fa ad avere una cosa non letta, non ascoltata, non vista, e non avere la curiosità di vedere cos’è? È solo questione di un click, non è che ti ho lasciato un’opera in dieci volumi sul penultimo scaffale di una sede di una tal biblioteca in periferia della provincia di una tal città custodita da un tale che al momento non è reperibile etc. No: un click.
Forse era meglio quell’altra modalità, almeno avrei avuto una giustificazione per capire la mancata presa visione. Sostanzialmente non capirò mai certe cose. Peraltro di cui spesso ricado inconsapevolmente vittima anch’io.
Non gli stati allusivi su Facebook ovviamente, sul tipo ad effetto: “lo sapevo”, “eppure non credo”, “sììì”, “ahahah stupendo, grazie”. Sì, ma che cosa? Mi induci a chiederlo così sei sicuro di aver avuto movimento sulla bacheca? Strategie abominevoli di marketing del sociale, puro bisogno di attenzione… No, oppure per farlo commentare con altrettante frasi a mezzo degli amici che sanno a cosa ti riferisci e farti capire che loro hanno una vita avventurosa, una vita.
Io no, io scrivo cose senza senso a prescindere e, anzi, il più delle volte crea proprio l’effetto opposto: non se le caga nessuno. Perché non l’hanno capito, perché non significa niente, perché c’erano post più interessanti o allusivi nella maniera sopradetta. Ho finito i perché. Anzi no, c’è quello che volevo dire sin dall’inizio: perché la bacheca è talmente piena di foto fatte con Instagram che non ci si capisce più nulla, le persone si trasformano in bozzetti a tempere rosso-marrone-beige e i luoghi in verde-verde acqua-azzurrognolo, tutto il resto è didascalia. Potresti essere anche dietro l’angolo di casa.
Ma naturalmente tutti pretendono di aver ragione, ecco perché non bisogna mai mandare file in altri formati che il pdf, lì sei sicuro di aver ragione almeno.
Vogliono aver ragione se ti sfilano davanti ad un incrocio o ti sorpassano al semaforo rosso e ti si piazzano davanti e poi non partono al verde (se non sono passati già col rosso) perché sono troppo in là per vederlo.
Vogliono aver ragione e concludono immancabilmente una discussione con un invito ad andare da qualche parte; neanche si accorgono se concedendo il beneficio del dubbio ti rivolgi a loro pensando che siano esseri umani dotati di ragione e logica, ma prima ancora di norme elementari dell’educazione, dato che non possiamo pretendere troppo. Così te ne torni a casa dopo una breve uscita entro i confini della città e dintorni che hai sfiorato la morte più volte tu che un supereroe. Prendi uno di quei gran fighi tipo James Bond o Lara Croft e mettili in una utilitaria nel traffico palermitano. Forse dovrei cominciare a usare il teletrasporto.
A questo punto, punto come interstizio di tempo e momento della mia vita (grazie Henri Miller per avermi segnato l’estate con i tuoi ragionamenti surreali sul tempo, grazie anche a Kerouac che “sentiva il tempo”. Si sono capiti da soli. Il grazie era ironico), dicevo, a questo punto giunto abbondantemente il momento di preoccuparsi delle pratiche di iscrizione alla magistrale, dovrei scrivere che mi trasferisco lì o lì a studiare perché farebbe molto figo, lo so.
No, io mi sa che ormai ho scelto di restare, se proprio devo essere sincera. Pazienza se vedo quei sorrisi beffardi ogni volta che incontro colleghi a cui avevo parlato dell’idea di andare fuori. Voglio dire, ormai devo vergognarmi anche di essere a casa mia.
E ora chiudo qui perché il punto cruciale di tutto questo ciarlare era che in realtà punti cruciali non ce ne sono mai quindi è inutile perdere tempo a cercarli mentre si potrebbero fare tante altre cose intanto. Inoltre ho abbondantemente sperimentato da ogni misera angolazione la totale fallimentare ispirazione cosiddetta poetica, alla fine resti sempre lì con il profumo nuovo, la polvere luminosa per il corpo che alla sera hai l’astrolabio nella scollatura, e devi mettere la crema effetto freddo per la circolazione che con quello che costa in termini di tempo e denaro è più agevole pagare una vacanza in Siberia e mettere le gambe nella neve. Creme viso, almeno cinque, creme corpo, prodotti per questo e quello, smalto, profumi, olio per i capelli, yoga, trattamenti benessere, alimentazionevitasanabuonumoreideepositivechetipermettonodiaffrontarelavitanelmiglioredeimodimatantovaafiniresempreuguale.
Pratiche di imbalsamazione femminile.
Ah no, il punto cruciale c’era: qualcuno mi paga una vacanza in Siberia?