Konstanty Ildefons Galczynski
Konstanty Ildefons Gałczyński nacque nella modesta famiglia di un ferroviere nell’anno 1905. Studiò filologia classica e inglese nella Polonia ormai libera e riunificata. Debuttò già nell’anno 1922, ma la prima opera che lo rese famoso fu una dissertazione universitaria, dedicata a un certo poeta inglese della Restaurazione, illustrata con una scelta di poesie di questo poeta nella traduzione polacca. Ben presto si scoprì che il poeta non era mai esistito, e che tutti i dati e i poemi erano stati inventati dallo studente Gałczynski. Era ubriaco di fantasia, ed è forse vero che il suo secondo strano nome, Ildefons, se lo sia dato lui stesso. La sua fantasia era apocalittica e insieme grottesca; le immagini che creava erano vicine ai quadri di Hieronymus Bosch. Ciò appare evidente specie nelle sue poesie della serie “catastrofica”, come anche nelle “Profezie” – piene di garbo e di follia, o nel poema meritatamente famoso – “La fine del mondo”. Esse riassumono e rappresentano i tratti più salienti della poesia di Gałczyński, ma forniscono soprattutto la misura del suo umorismo.
Ed ecco la seconda e forse più rilevante prova dell’originalità di questa poesia. Gałczyński è irresistibilmente spiritoso. Le sue grottesche e vulcaniche visioni, considerazioni e battute sono tutte piene di una grazia inconfondibilmente poetica. In modo molto evidente esse illustrano la parentela costruttiva tra una metafora poetica ed una riuscita battuta umoristica. Gałczyński era un satirico dotato di una mira infallibile. Fu lui che innestò la tecnica del surrealismo nella satira polacca. Basti leggere poesie come: “Un cavallo in platea”, o il ciclo delle esilaranti scenette teatrali “Il teatrino dell’oca verde”.
Queste particolarità lo legano alla importante e più autorevole corrente d’avanguardia nella prosa e drammaturgia polacca. I suoi rappresentanti più noti sono: Stanisław Ignacy Witkiewicz e Witold Gombrowicz. L’ironia è l’effettivo substrato delle loro opere, peraltro così diverse. Essi adoperarono la beffa come ancora di salvezza della loro dignità, nell’imminenza della catastrofe, e con la coscienza dell’assurdità della vita.
Gałczyński invece cercò la salvezza anche nella solidarietà con l’uomo della strada. La sua felice maniera stilistica e la popolarità delle sue poesie, già grande prima della guerra, lo spinsero verso un certo qualunquismo. Egli ruppe con la lingua curata e con la tradizione intellettuale nella poesia, e fu quindi naturale che schernisse coerentemente l’intellighentzia, portatrice di queste tradizioni. Egli divenne così oggetto di tentazioni da parte della destra nazionale polacca, nemica, come tutte le destre, dell’intellighentzia, delle discussioni e dei ragionamenti. Per un breve periodo, fino al termine degli anni trenta, questa corrente affascinò Gałczyński col suo dinamismo artificioso, con lo scherno dell’apparente logorio delle tradizioni democratiche della classe intellettuale, ma particolarmente con l’adesione della gioventù. L’aspirazione ossessiva di Gałczyński fu il legame stretto coi lettori. Egli faceva tutto senza alcun cinismo e sempre con la maestria di un “buon artigiano”, come lui stesso amava definirsi.
Sopraggiunse la guerra. Nel 1939 la Polonia venne assalita e distrutta proprio da quelli che erano serviti da esempio alla destra. Gałczyński che era soldato semplice, finì in un campo di prigionia di rigore. Proprio lì, nell’Altengrabow, nacquero le commoventi poesie alla moglie adorata Natalia e le liriche che mezza Polonia ricopiava e diffondeva clandestinamente. A cinque anni dalla liberazione, egli tornò nella patria socialista e approfittò di una delle reali possibilità sorte col cambiamento di regime: al posto del popolino, poteva avere ora il popolo stesso come interlocutore. Così almeno egli sperava. Le sue poesie, infatti, acquistarono una risonanza assai ampia, sebbene ancora non generale. Malgrado le limitazioni tematiche imposte e il crescente oscuramento dell’atmosfera sociale in quegli anni, Gałczyński riuscì a pubblicare, una dopo l’altra, diverse raccolte di poesie, come: “La carrozza incantata” e “Le vere”, i poemi “Niobe” e “Wit Stwosz”, le commedie “La notte dei miracoli” e “Il ballo degli innamorati”, un nuovo divertentissimo libretto per l’”Orfeo all’inferno”. Scrisse inoltre testi di canzoni popolari, un ciclo di spassosi feuilleton: “Le lettere pazzarelle”, e tradusse Shakespeare. Venne lasciata ai poeti la terra appena sufficiente per un vaso, ma Gałczyński riuscì a cavarne un intero giardino pubblico.
Morì colpito da infarto il 6 dicembre 1953, proprio quando cominciavano a soffiare le prime attese ventate del disgelo nell’atmosfera politica del paese. Di solito, un poeta che muore celebre viene ben presto dimenticato, e bisogna attendere molti anni per la rinascita della sua fama. Gałczyński è uno dei pochissimi scrittori la cui popolarità non solo continua, ma cominciò a crescere subito dopo la morte e, nel suo caso, occorre aggiungere, a crescere con la forza di una valanga.
Grazie a Paolo Statuti, sono state tradotte in italiano alcune opere tra le più amate nella patria del poeta, e va sottolineato che la versione è tale da far capire le bellezze tipiche e le componenti melodiche dello stile di Głaczyński. Chi scrive è stato amico e ammiratore del poeta, ed ha un solo desiderio: che anche i lettori italiani si rendano conto del perché la sua poesia ha ridato a noi polacchi la fiducia nel significato e nella serietà della bella arte dello scrivere.
Jerzy Pomianowski
Konstanty Ildefons Gałczyński tradotto da Paolo Statuti
VISIONI DI SAN ILDEFONS
ovvero
S A T I R A S U L L ‘ U N I V E R S O
LA FINE DEL MONDO
Al mio Amico S.E. SIGNOR TADEUSZ KUBALSKI
come anche alla memoria delle mie zie buon’anime:
Pitonessa, Ramona, Ortoepia, Leonora, Eurasia, Titina,
Ataracsia, Repubblica, Ierusalem, Antropozooteratologia,
Trampolina, Ortodossia – rapite nel fiore degli anni da una
tromba d’aria nelle vie di Bologna
dedica l’inconsolabile
AUTORE
Apparebit repentina
Dies Magna Domini
Fur obscura velut nocte
Improvisos occupans…
cantilena latina
A Bologna in Accademia
l’astronomo Pandafiland
disse, levando la berretta:
- Signori, si profila
la Catastrofe Estrema,
la fine del Cosmo ci aspetta;
tutto vi voglio chiarire:
parallasse e perturbazione,
tra un’ora – è mia opinione –
il mondo dovrà sparire..
A quell’atroce accenno
saltò su Ser Marconi,
colui che avea più senno
fra tutti quei barboni.
E disse: – O adunata
di savi, amici miei,
ciò che udiste è una boiata,
come tre e tre fa sei;
in veste di rettore,
dichiaro che l’autore
di questo sporco intrigo
si merita un castigo,
che solo un invasato
può avere escogitato
una simile impostura.
Chiasso e vocìo nella sala:
ogni sapiente fischiava,
gridava: – Che fregatura!
ci voleva irretire,
corrompere, incantare,
idiotizzare.
Aspetta: ti concio io,
quest’onta nessuno ti scaccia!
Ciò detto uscirono, sbattendo il leggio,
come alla dieta polacca.
Restarono gli scanni scuri
e i Cristi neri sui muri,
e sul pulpito – avvilito,
piccino, rattrappito –
l’astronomo.
Gli doleva assai la testa,
allor prese un calmante,
e per un breve istante
non fece alcuna mossa:
anche lui è di carne e ossa.
Poi su e giù passeggiò alquanto,
cupo – più cupo non puoi –
e borbottò: – Cessa il comando…
Sul muro bianco, dipoi,
segnò cifre e così pure
zodiachi e figure –
per un tempo senza fine,
sibilline.
Poi sopra un blocco notes,
sbirciando il suo quadrante,
tracciò facce curiose
con piglio da gigante.
Quindi, sui palmi appoggiato,
guardò a lungo alla finestra:
Bologna era verde come un prato
ombrato.
Era sera.
E da lontano – pensate! –
giungevan note flautate –
era d’estate.
Stop.
Quando il tempo fu scaduto,
vale a dire alle otto,
il rettore prevenuto
ogni specchio trovò rotto;
e li trovarono spezzati
i pensionati e i tappezzieri,
come anche tutti i barbieri,
e fu la piaga pei peccati.
Che buffo! Il bidello Malvento,
guardandosi allo specchio:
- Ho nel volto un tagliamento!
Gridò. Era nello specchio.
Qui, nelle mie visioni,
una pausa si perdoni.
LE VISIONI RIPRENDONO
Piante, farfalle e gatti
riddavano balzelloni,
biancheggiavano i rondoni
e c’era sangue sui sassi.
Calando le tende trapunte,
anche il rettore tremava,
come un neonato frignava,
e non era un fesso qualunque.
In tutte le strade, oramai:
“Muore Bologna!” – gridavan.
Quel forsennato viavai
la polizia caricava;
coi loro corti randelli –
botte da orbi alla gente,
ahi, ahi! urlavan quelli:
“Si salvi chi è credente!”
Chi lo era diceva “O Dio”,
e chi non – “Morte ai paurosi!”
Salivan sui tetti i curiosi
ed anche il bue, caro mio,
muggiva, muggiva, muggiva.
Per le strade il flagellante,
invocando le sante,
il suo corpo feriva.
Solo gli allegri studenti,
nelle taverne, incoscienti,
in mezzo alle foglie di vite
scrivevan versi alle amiche,
e quelle ch’eran più schive,
dietro una foglia – davvero! –
baciavano sulla bocca.
Ma bravi! Crepa il mondo intero
e qui si fa bisboccia.
Peccate reciprocamente
studenti e madonne,
bevete cognàc – vergogna! –
cantate,
con le chitarre sonate:
“Evviva Bologna,
città delle belle donne!”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qui, pausa: crepo d’invidia.
Durante questi portenti
senza capo né coda,
inauditi e sconvolgenti,
l’artigiano G. Lucco
si divertiva parecchio
cantando e sgrossando bare:
cantava Giovanni: “Ti sgrossi,
mia bara, ti sgrossi;
accoglierai una fanciulla
dai capelli rossi”.
E quando sentì d’aver fame,
messo dell’olio sul pane,
mangiò piano, con devozione;
dopo – politico all’erta –
mise gli occhiali a stanghetta
con oculata attenzione,
se no saltavano le lenti;
con la pipa tra i denti
e la mano incallita,
le lettere conficcava
di chi più non c’era:
- Basta…chiudo e me ne vado…
uhm…la fine del creato…
in fondo…non è sgradita…
e già dormiva sereno,
Giovanni, nell’orto, sul fieno.
Ma negli ospedali affollati
eran desti, poverini,
dentro i bianchi lettini,
i malati.
Ognuno là dentro gridava,
tossiva ed imprecava:
- Dove sono i dottori?!
i vasi, le sputacchiere,
gli stecchini e le infermiere?!
Ci aumentano i dolori!
non fateci morire,
ci vogliamo vestire,
dateci una cravatta –
non vogliamo bende e ovatta!
C h e p o r c h e r i a !
ma il coro pian piano scemava,
più d’uno la notte crepava.
Ora il silenzio regnava
nella bianca corsia.
Ed ecco che da un pitale
saltò fuori il Mostro Astrale
e ingoiò le medicine.
Visione quarta: fine.
Davanti all’Accademia,
a mazzetti come viole,
compiangevano la terra,
ciarlavan le fruttaiole:
- Lei vede?
- Non vedo.
- Si vede qua e là.
- Qualcosa viene.
- Di brutto.
- Bla bla!
- Bla bla!
- Ho visto, signora mia,
- andava in sagrestia,
- è vero sì
- è vero sì.
- Proprio.
- E’ sul giornale financo,
- nero su bianco.
- Oh!
- Qui
- Pro
- Quo
- Dio ci punisce…
- Cosa?
- Cosa?
- E questo Cosmo…
- Ahimé il Cosmo perisce…
Emerge come una palla
dal fiume la luna bianca.
Il bosco sul fiume balla
come uno senza cianca.
E il fiume scorre e cela –
la lunga – parola – celeste.
La luna, come una mela,
ad un rametto s’appende.
Ma a che servirà quel disco?
Sarà ciò ch’è previsto.
Non serviran le onde:
l’allarme già s’effonde.
Plebe e Re che posson fare?
Si peggiora ed il timore
si solleva come il mare.
La nuvolaglia scura
galoppa stancamente;
l’ira della Natura
annuncia pigramente.
Alla città s’appressa,
sulla terra oppressa
cadrà assai presto,
enorme, orrenda, avversa.
Da San Michele arriva
un rintocco funesto.
Più morta che viva
Bologna trema.
Banchieri, confessatevi:
vita e soldi perderete!
e voi tra i topi celatevi,
voi che massoni siete.
Vedo avvicinarsi l’Orrore,
il Principe delle Tenebre
conficca al polo la bandiera.
Perché dall’a alla z, sissignore,
la profezia di Pandafil s’avvera.
S’avvera, sì, sì, s’avvera,
tutti i telefoni han tremato,
nella sala degli specchi
corre il Re spaventato.
Pronto
Pronto
Pronto
Sei tu? sei tu, Genoveffa?
Son’io, son’io – Antonio!
Lei sbaglia! Quattro-cinque-zero!
E’ il negozio di bare?
Non si capisce, a quanto pare.
Io sono suo genero!
Stasera i cavalli spedire.
Posta Pinocchio, dodici per 15 lire.
Pronto
E’ la cancelleria reale?
Sei tu, micino?
Alienato!
Sono il ministro della guerra,
Sire,
insorge il proletariato:
P come Pitonessa
Ramona
Ortoepia,
Leonora
Eurasia
Titina
Ataracsia
Repubblica
Ierusalem
Antropozooteratologia
Trampolina
Ortodossia!
IL PROLETARIATO
Mandaron l’esercito in città,
e l’esercito marciò:
Piccolo-flauto – fi-fiù-fi-fi-fiù,
e i tamburi – tara-tarapùm:
- Il Cosmo schiatta passa il Cosmo,
il tapino non sarà più!
Poi seguiva curvato,
pensoso, accerpellato,
con occhiali e scopetta
il compagno Saponetta;
e alla luce dei fari
ripuliva i binari.
Borbottava qualcosa
Sputando le parole:
- Il Cosmo è una gran cosa,
ma l’ordine ci vuole.
E su lui che spazzava,
e su questi binari,
un colombo volava
e batteva le ali.
Sul colombo – la luna
rischiarava il cammino.
Sparivan nella bruma:
quello, rotaie, spazzino…
Laggiù, l’ombra, nei pressi
della città, calava.
E ad essi, solo ad essi
Pandafiland sogghignava;
idillico si fece,
e in estasi pensava:
- Dio mio, che incantevole
scenetta proletaria!
Pensavano ugualmente
i poeti di Bologna:
Spazzino commovente,
far come te bisogna!
Cantavano i poeti:
- Orsù, non disperiamo,
il mondo è spacciato,
ma col proletariato
giochiam, giochiam, giochiamo.
Divertitevi, ragazzi.
Frattanto già tonava,
frattanto lampeggiava
e qualcosa di brutto
in giro s’annunciava.
Non servì il turpiloquio,
né gli insulti alla Madonna:
terminava ormai l’obbrobrio,
il mondo e la vergogna.
Nelle vie di Bologna –
folle peregrine.
Adunate, consigli:
come impedir la fine.
Ma come restar vivi
nel giorno delle stragi!
ribaltavano gli archivi,
teatri, colonnati,
negozi, templi, arene,
diverse ubicazioni,
elefanti e stazioni,
e al cinema le scene.
Ed a Giovanni Lucco
Che dormiva profondo,
crollò la colombaia
e ne fuggì un colombo:
quel colombo benigno,
quello dello spazzino,
cui Pandafil maligno
lanciò quel sorrisino.
Solo quando i pianeti
cambiaron direzione,
fu indetta su due piedi
una contestazione:
C’erano tutti quanti:
vecchi, adulti e minori,
i bianchi, i gialli e i mori,
anche i parlamentari,
ventriloqui e fornai,
Satanassi e Santi.
E ancora i commedianti,
e i poliziotti – tanti;
c’eran preti, un rabbino,
ed anche molte suore.
E in testa era il rettore
in groppa a un bel suino;
senza scarpe passavano
gli esibizionisti,
con gli striscioni i socialisti,
con le bombe i comunisti
sfilavano.
Cosa ovvia – gli anarchici
con diabolici ingranaggi,
i massoni coi compassi,
e i bambini
con graziosi mazzolini;
i più incalliti monarchici
cantavan “Viva il Re”,
e dietro, i neopapisti,
invero un po’ marxisti,
cantavano “scotendo i cieli”:
Evviva bandiera rossa!
Risatine!
La cosa andava bene,
con ordine, tutti insieme:
adunate, comizi imprevisti,
ku klux klan e squadristi,
dum-dum a tracolla;
risoluzioni, pretesti,
rivoluzioni e manifesti.
LA FOLLA
Apparve l’Arcobaleno,
rifugio del mondo
ormai vano:
come bambini impauriti
si presero per mano,
ma turbinavano,
impietriti,
e da tutte le gole
si levarono i gridi:
- NON VO-GLIA-MO LA FI-NE DEL MON-DO!
Per dispetto iniziò il finimondo
Sic!
Incominciarono i malanni
in un orrida atmo-
sfera. Vedi Giovanni,
Apocalisse – Pathmos:
Già i soli peri-
vano e lungi cadevano.
Giù le stelle, come pere,
che gli Ebrei si rivendevano.
La luna in questa buriana
seguì il comune destino,
disse addio alla vita grama
e si tuffò nel vino;
gorgogliava da ogni poro
quella vecchia alcoolizzata,
poi il barile divenne d’oro,
e lei morì annegata.
Sempre più si sgretolava
questo lurido creato,
e schiantandosi affogava
anche il vecchio antico stato.
In quel solenne istante
Pandafil disse raggiante:
- E’ terminato lo scompiglio,
s’immerge il mondo
come l’enorme scafo d’un naviglio
nei flutti dell’etere profondo.
TUTTO QUESTO HO SAPUTO
DAL CIEL TELEFONANDO
E SCRIVERE HO VOLUTO –
ILDEFONS IL SANTO.
FINIS
(1930)
PROFEZIE
Quando il Gran Codanera
a Lisbona arderanno,
e nella stratosfera
tre zeri splenderanno,
sbucherà la Pantera,
verrà l’Empio Colera,
Arturo e Malacoda
la man si stringeranno.
Buio cupo e terrori,
notte come un dragone,
presto usciranno fuori
il baro e l’imbroglione,
banditi e ambasciatori,
sicari e distruttori –
che gioia veder tutti
nell’infero burrone!
Rammentate quel prete
profeta del destino!
La luna forse avrete,
ma sembrerà un porcino.
Voi che cassieri siete,
l’orrore proverete –
vi torrà l’ombelico,
v’andrà nell’intestino.
Vedrete i calabroni,
i tafani regnare,
orribili scorpioni,
zecche, pulci, zanzare;
e vermacci a milioni
dai cassetti dei demòni,
eppur la lucciolina
uscirà per brillare.
Diran, piangendo, i vati
che la luna è un’arancia –
ma alle arance, annoiati,
chi più darà la caccia?
Voi ci avete infettati,
o giambografi amati,
v’oltraggerà la morte –
simpatica vecchiaccia.
La falce darà addosso
A tutti i porci ingordi.
Avranno il naso rosso –
così saranno scorti.
Addio, porcello arrosto!
Addio, ciambelle al mosto! –
balordi, Malacoda
è nel caviale – accorti!
Malacoda scorrazza,
le palle a sonagliera,
davanti – una mazza,
dietro – un culone a pera.
Sic Malacodae gratias,
dei maiali disgrazia,
a VILNO partorito
dalla notte più nera.
Pieno zeppo è il papiro.
Già profonda è la notte.
Predìco per finire:
la siccità è alle porte.
Se ti manca il respiro:
“Pasticche dell’Emiro” –
Malacoda è la base,
confida in lui – è forte.
(1936)
LA MIA POESIA
La mia poesia sembra una notte lunare,
una quiete sconfinata;
quando la fragola dolce nei borri appare
e l’ombra è più grata.
Quando nessuna donna mi sorride
e ogni cosa è sopita,
quando un grillino da un mattone stride:
“che pacchia la vita!”
La mia poesia è un mero prodigio,
è il paese ove d’estate
dormiva rannicchiato un gatto grigio
sul davanzale.
(1937)
ADDIO ALLE LANTERNE
Voi che di notte risplendete
rischiarando i vicoli stretti,
sempre pazienti e uguali siete,
voi – le stelle dei poveretti;
e l’uomo che a caso procede,
di notte, ubriaco, nel gelo,
alzando la testa vi vede,
e mormora: – Son forse in cielo?
ADDIO, MIE CARE LANTERNE.
Voi, qualunque contrada accolga
la vostra luce indulgente,
a Parigi, dove una volta
amai senza ottenere niente;
o a Londra, ove la nebbia rammenta
il sonno e il vento è un ossesso,
e dove la lanterna “addenta
con la luce” – già Eliot l’ha detto.
ADDIO, MIE CARE LANTERNE.
Voi che cantate ogni notte,
finché Venere ancora balena,
voi sotto le quali tre volte
lessi il “Divino Poema”;
voi di paura non tremate,
come sonetti nell’eternità,
voi con la luce perdonate
come donne – popoli e città.
ADDIO, MIE CARE LANTERNE.
(1948)
LA PASQUA DI JOHANN SEBASTIAN BACH
La famiglia è andata ad Hagen.
Sono rimasto solo in questa enorme casa.
Dei miei passi rimbomba l’andante.
Mi fa ridere tutta questa doratura
e questi pellicani scolpiti senza cura,
e quelle nuvole che corrono a levante.
Io amo le nuvole. E le luci cupe.
Come le fortezze. Come le mie quadruple fughe.
Girare per le stanze – che incanto,
con la Signora Musica accanto!
Come bosco d’autunno le rosse candele d’oro.
Oggi è Pasqua. Le campane conversan tra loro.
Oh, felice è il mio cuore!
Nei vecchi cassetti le vecchie missive,
e nei libri le foglie seccate;
che bello frugare tra le carte d’un tempo…
Oh, ore festive piene di dolce fermento!
o estri come colonne d’oro, o cantate!
Vestito di verde velluto
sguazzo, vago per queste stanze,
sui ballatoi e sulle scale;
oh, prima di sera, quante ore ancora, quante,
per borbottare, canterellare, camminare,
scorrere come acqua incantata!
Scuri come la notte i ritratti mi salutano,
e ancor più scuriscono quando m’allontano.
E’ buffo che alcuni m’han chiamato maestro,
dicono che nelle cantate il Cielo ho messo.
Peccato che qui non tutti conoscete il mio merlo,
ah, come questo merlo canta, ah, che bravura!
A lui devo molto. E anche alle grandi nubi.
E ai grandi fiumi. E al tuo seno, o Natura.
Guardate questi giacinti azzurri,
queste sedie di legno nero,
tutti questi mobili dorati,
questa gabbia coi pappagalli, che canticchia,
quelle nubi come vascelli argentati,
che il vento del sud solleva.
Sì. Guardate. Qui dimoriamo.
Qui ricorderanno Johann Sebastian.
Dicono che sono vecchio. Come il fiume.
Che il tempo sempre più mi sfugge di mano.
E’ vero che molte ore ho sprecato.
Non fa niente. Al diavolo! Io suono su corde resistenti
e ci sono ancora le mie cantate, accidenti!
Non il tempo me, ma io lui all’incudine ho legato.
Presto tornerà la famiglia e comincerà il banchetto.
Le mie figlie, prima di sedersi, si acconceranno.
Lo sciame degli ospiti giungerà. Il ballo inizierà.
Mangeranno e berranno a profusione.
E anche il pastore dall’arazzo zufolerà una canzone.
Poi calerà la sera. E io sparirò nel pergolato.
Perché migliore del mio violino, quando ero a Weimar,
delle perle che sogno per mia moglie,
delle sonate dei miei figli, di ogni vaghezza,
è questo attimo di grande dolcezza,
proprio quando, nella pergola, da una sua fessura,
vedo una cosa insolita, vertiginosa, pazzesca a dismisura:
IL CIELO STELLATO DI PRIMAVERA.
(1950)
IN MORTE DI ESTERINA
DEPORTATA
DAI NAZISTI
VENEZIANA
I
Sulle tue trecce il cielo avrei scalato
e di colpo cosa? Un drappo.
Il cuore t’è fuggito come un ratto,
e nemmeno s’è scusato.
Perché racimolare scienza? – mi chiedo.
Ti scuoto: – Dimmi, perché? –
Il cero langue. Sei morta. Siedo
la notte accanto a te.
Risuscitarti non posso. Capisci?
L’ombra la beltà scolora.
Nemmeno l’acqua non vuoi. Non capisci.
Dai cupi fiumi bevi ora.
Già altrove il tuo occhio riluce
d’un bagliore verdigno,
quando vai per la sotterranea palude,
e delle canne odi il bisbiglio.
Oltre i vetri la foresta è affanno
che aumenta, a chi servirà?
Gli uccelli sui nodi stanno
immobili, sciocchi, di legno già.
II
Se un giorno incontrerò tua madre,
dirò che t’ho seppellita –
che avevi le ciocche tirate
e trecce dal cielo fuggite;
che gettai una volta un piccolo ramo
di mughetto ai tuoi piedi, dirò:
caricando il concime parlavamo
del clown dal naso lungo-Pierrot.
III
Tu, foresta, disperati con me,
tu, querceto, faggeto, betulla –
buco nella scarpa, struggiti anche te
sulla bella, sulla morta fanciulla!
Cervi di legno, uccelli di vetro,
lepri di maiolica alate,
aiutatemi a gettare, vi prego,
l’odiosa terra sulle labbra odorate.
La pioggia ha lavato i grossi rami.
Il fiume del cruccio balbetta e scorre.
Coraggio, fratelli: trecce, mani,
bocca e occhi sotterrare occorre.
(1945, frammento)
(C) by Paolo Statuti. Riproduzione riservata