«Abbiamo preso l’impegno di esplorare l’opportunità di costruire un museo islamico a Venezia nel Canale grande». Lo ha detto il presidente del consiglio Enrico Letta in conferenza stampa da Doha, aggiungendo di aver «discusso di questa opportunità, dobbiamo vedere e fare una valutazione profonda di questo progetto».
Francamente ho potuto sempre non sentirmi cristiana, per quel che ne so non potrebbe rivendicare radici cristiane nemmeno l’Europa, se è vero che dovrebbero parlare di solidarietà, amore, fratellanza, perdono e compassione. Non considererei quindi un’abiura una eventuale conversione all’Islam, anche se piuttosto sorprendente.
Ma da laica, agnostica e anticlericale e anche semplicemente da cittadina, con tutto il rispetto, mi roderebbe parecchio se a folgorarmi sulla via di Doha non fosse una improvvisa illuminazione, bensì una pressione scaturita dall’intento di fare cosa gradita a sceicchi, emiri, visir e pascià in vena di fare shopping non in Italia ma dell’Italia.
Proprio come i più insistenti pitocchi, il premier, che, come sospetta il Simplicissimus, si è consegnato di buon grado ai cravattari d’Arabia per coprire le falle di quella pelle di zigrino chiamata Cassa Depositi e Prestiti, dalla quale a ogni voragine si vorrebbe attingere per indorarci la pillola, li ha voluti compiacere, propiziarseli perfino col museo, scegliendo gli emirati più assolutisti e teocratici, stati cuscinetto e alleati degli Stati Uniti nella destabilizzazione mediterranea.
E siccome nutro forti dubbi sulla sua diligenza di scolaretto, deve aver fatto un po’ di confusione tra geografia e storia, così ha scelto Venezia forse per fare ammenda della battaglia di Lepanto, che per lui oltre il mare turchi arabi è tutto lo stesso basta che stavolta diventiamo noi i venditori di tappeti taroccati.
Incurante di aver stretto una larga intesa come una galera con gente che ha ostacolato anche la conversione di una palestra in moschea, con partiti che hanno rivendicato specificità e superiorità confessionali per poter agevolmente reprimere legittime istanze e diritti, si vende oltre all’Italia anche qualche promessa, com’è ormai uso di governo. Che poi della cultura nazionale o estera interessa così poco al nostro ceto dirigente, che è meglio offrire un museo che una moschea, tanto le chiese con annesse opere d’arte se le compreranno molto presto e magari invertiranno la pratica di trasformazione sperimentata con successo a Siviglia, Granada, o in Sicilia.
Per carità come definito dall’International Council of Museums “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto” e uno in più non potrebbe che fare del bene aprendo menti a culture altre e sgombrando pregiudizi consolidati.
Ma un Paese che i musei li chiude, lascia crollare Pompei, affonda sotto la pioggia, fa passare condomini nel Bacino di San Marco, dimentica in cantina centinaia di opere d’arte ricordandosene solo per offrirle in affitto, che permette a amichetti di potenti di alienare intere biblioteche, appena prima che se le svenda il governo, non possiede le carte in regola per certi mecenatismi ruffiani, liturgie officiate per celebrare accordi opachi.
No ne manca altro, diranno i veneziani, temendo l’arrivo tempestivo di archistar e sponsor spericolati. Ma in fondo basterebbe rispolverare la torre di Cardin in formato minareto.