IPalermo vent’anni dopo faceva ancora più schifo. Un fiumiciattolo di acqua nero scorreva sull’asfalto di via Messine Marina, i tombini saltavano, i pozzetti spruzzavano il loro schizzo di fogna. C’era stato un acquazzone. I commercianti che ritiravano dentro la propria merce, cercando di salvarla dall’infradiciamento definitivo, avevano l’aria rassegnato che denotava visto, rivisto e stravisto.
A mollo del bagnaticcio fetido, a completare il quadro, aveva pure visto alcuni cadaveri che galleggiavano. Erano due ratti di fogna, risaliti in superficie per l’ultimo viaggio terreno, come dentro un putrido e rivoltante Gange. Intanto i cassonetti strabordavano d’immondizia, grassi e pieni fino quasi a scoppiare, noncuranti dell’acquazzone e di qualunque altra prevedibile calamità. I sacchetti degli ipermercati si ammonticchiavano agli angoli delle strade seguendo arabeschi inconoscibili. Altri topi, questa volta vivi e dalle panze pesanti, grassi e pieni fino quasi a scoppiare, gozzovigliavano senza vergogna, felici per l’inaspettato banchetto all’aria aperta.
Marco Fantesca tirò dritto col suo macchinone da emigrato fortunello, imboccò l’autostrada ed entrò quindi nel ventre sfatto del suo paesucolo natio, ridotto ormai ad osceno dormitorio per impiegati e ferrovieri.
Sua madre dal suo letto non si riconosceva più. Si era rattrappita tanto che sembrava una grottesca neonata rugosa. Un tubero umano. A volte spalancava gli occhi e ruotava le pupille, si agitava un po’ e sussultava qualcosa. Carmen, la cognatina servizievole, era sempre pronta ad afferrarle il braccio rinsecchito e ficcarle nella vena l’ennesima dose di tranquillanti.
Marco aveva cercato pure di parlare con suo padre. Il vecchio se ne stava in una stanza a parte, davanti al Tg4, vestito di tutto punto e con la coppola in testa, la schiena incredibilmente dritta a fondo del suo divano molle. Neanche si alzò, limitandosi soltanto ad alzare il volume di Emilio Fede.“Sei qua? – disse di sfuggita – E come hai potuto fare?”.
Nella stanza da letto, al capezzale della morente, c’era solo Carmen, la cognatina servizievole, piccola e rapida nei movimenti, dai capelli color fieno e gli occhi celeste buono. Carmen ce la mise tutta per farlo sentire a proprio agio. Lo costrinse a farsi una doccia, gli stirò i vestiti spiegazzati di valigia, li profumò con un tenue deodorante e gli preparò una cena che sembrò uscita dal nulla.
“Tuo fratello si sta vendendo l’anima per stare accanto a sua madre – diceva – Ma ora col lavoro nuovo non gli lasciano un minuto di tregua. Io lo vedo solo di notte, ormai, quando si mette seduto davanti al letto e si addormenta così, tenendo la mano a sua madre”.Parlava come a se stessa, riavviandosi i capelli e camminando giro giro.“Lui dice LaCarrieraLaCarriera – continuò – ma dovrebbe capirlo che ci sono pure esigenze più importanti. Non possono addossare a lui tutte le udienze solo perché là dentro è il più bravo. E lui dice MiLicenzianoSeGliDicoNo, ma io dico che uno con la sua professionalità il lavoro lo trova comunque. Non è vero?”.Marco fu sorpreso di essere tirato in ballo nel monologo.“Certo, se ha un mestiere in mano, se è bravo, non dovrebbero esserci problemi” rispose. Aveva detto il mestiere in mano, come se si trattasse di un pasticciere.
Era stanco. Carmen gli preparò il letto che neanche il Tg4 era finito. Si addormentò che fuori c’era ancora luce. Non si era sentito a suo agio.
II
“Ricordo benissimo tutto quello che ci siamo detti, sai?”.“Tutto tutto?”.“Certo”.
La voce era sempre la stessa – bella, calda, squillante – il corpo invece era caduto un po’, si era un decisamente imbolsito. Ma non c’era ancora niente di brutto in lei.Veronica l’aveva incontrata per caso per strada, come a Milano non succedeva mai, mentre stava andando al supermercato per comprare quelle due cose che gli aveva comandato la cognatina servizievole.Si erano incrociati, poi un lampo e lei gli era corsa dietro. Come avrei potuto non riconoscerti? Gli disse abbracciandolo con vigore. Lui sentì con spavento tutta la consistenza del suo nuovo corpo da possente donna felliniana.
- Davvero, ricordo tutto!- E cosa c’è di così importante da ricordare?- Ma scherzi? Con te riuscivo a parlare di qualunque cosa senza temere di essere noiosa. Con te riuscivo a parlare di cose così autentiche, cose di cui non parlavo a nessuno. Ma ti ricordi?- …Sono passati vent’anni.- Io ce li ho come marchiati a fuoco nella mente, i discorsi con te. Certo, spesso perdevamo il filo e finivamo a parlare di tutt’altro. Ma era così bello, noi eravamo così pieni di idee, il mondo era così tanto grande.- Perché, ora il mondo è più piccolo?- Allora gli orizzonti erano sconfinati.- E adesso?- Adesso no.
Veronica era arrossita, lui aveva abbozzato un sorriso imbarazzato. Forse ne era stato innamorato, a vent’anni, più di vent’anni fa. Ne era stato innamorato ma non l’aveva mai capito. O forse aveva pensato di esserne innamorato, ma non l’aveva capito. O forse l’aveva capito ma non l’aveva mai pensato. O forse non ne era stato mai innamorato ma ci aveva pensato qualche volta, sbagliando. Non ricordava più bene.
- Già – continuò lei – man mano che cresci il mondo si fa sempre più piccolo. Quando parlavamo davanti ad un caffè la mia testa correva lontano, al di là del tempo e dello spazio. Immaginavo mille vite possibili, mille esperimenti e mille esperienze.- E ora?- Ora penso a badare ai miei figli, ad amare mio marito, a fare la spesa, ad andare in piscina, a leggere e leggere e leggere. Ma non leggo più per aprire la mente, non ne sento più il bisogno. Leggo per svagarmi e probabilmente anche per darmi un tono rispetto alle altre donne.- L’importante è stare bene. E tu mi sembri una che sta bene.
Sì, concluse Marco, probabilmente da giovane ne era stato innamorato. Follemente.
- Potevamo scopare, sai? – disse lei, alla sprovvista.Mauro non capì.- Si, potevamo scopare, noi – ripetè lei- Quando?- Vent’anni fa. Quando uscivamo spesso e parlavamo ore e ore.- Che vuoi dire?- Voglio dire che potevamo scopare. Che tu non me ne hai mai parlato e che io non ho mai preso il discorso. Ma che, se capitava l’occasione, noi avremmo scopato di sicuro.- Questo che significa?- Significa quello che ti ho appena detto.- Dunque a te non sarebbe dispiaciuto?- Diciamo che non mi sarebbe dispiaciuto. Non è che non ci dormissi la notte, questo no. Però se fosse capitato, penso mi sarebbe piaciuto.- Il fatto è che non ne abbiamo mai parlato.- Eh si.- …- Ora ti sembro ridicola?- Per niente.- E a te, se fosse capitato, sarebbe dispiaciuto?- A dire il vero, io non aspettavo altro.
III
Suo fratello Vincenzo era sfinito da un giorno di tribunale. Non aveva la forza di svestirsi né di mettersi sotto la doccia. Si era soltanto slacciato la cravatta e se ne stava lì, al capezzale della morente, a tenerle la mano.
“Perchè non ti metti un po’ a letto? – gli sussurrò Marco – Ci sto io con la mamma. Tu riposati”.“No no, sto bene così” .“Senti a me – insistette Marco – È mezzanotte passata. Domani hai la sveglia presto. Riposati, altrimenti un giorno di questi ti viene un collasso e mi svieni davanti al Palazzo di Giustizia”.“Non ti preoccupare, resisterò”.
Niente da fare. Testa dura era e testa dura era rimasto. La sua testardaggine probabilmente si era alimentata a causa del successo e l’accettazione sociale. Chi l’avrebbe mai detto che quel ragazzotto belloccio e atletico, sempre in giro con la Vespa e sempre in compagnia di belle ragazze, si sarebbe trasformato in un grande avvocato tutto casa e bottega? Vincenzino ai tempi aveva stupito tutti iscrivendosi a Giurisprudenza e macinando tutti gli esami con la determinazione di uno schiacciasassi. Laurea con lode, tirocinio presso un prestigioso studio legale ed ora eccolo qua, il fratello minore dalla testa in aria, il libertino di famiglia. Marco si trovava davanti, seduto su quella sedia, un trentacinquenne innegabilmente bello e affascinante, sicuro e autorevole, dalla mascella liscia e robusta, i capelli cortissimi e la personalità ben spiccata.
I due fratelli passarono così la notte seduti attorno alla culla della neonata raggrinzita. Marco aveva fatto il biglietto da Milano non appena ricevuta la chiamata del fratello. La mamma si è aggravata, gli aveva detto, i dottori dicono che è questione di giorni. Ce la possiamo tenere a casa perché tanto, per la situazione in cui si trova, all’ospedale non sarebbe cambiato molto.
Mentre faceva la valigia, poi sull’aereo, poi sulla strada verso il suo paese, Marco sentiva ancora il rimbombo della voce ferma e baritonale del fratello. Aveva cercato di commuoversi pensando alla morte della madre come alla fine di una parte della sua vita, al disfacimento di una condizione che non tornerà più, alla giovinezza irrecuperabile, alla vita che fugge, all’inesorabile scorrere del tempo eccetera eccetera. Purtroppo non era riuscito a procurarsi altro che un vago stato di tristezza soffusa. Il massimo che era riuscito a spremere, da quando era arrivato in Sicilia, era stata solo una debolezza mortale che ora lo prendeva alle braccia e alle gambe e che, se messa insieme a quel lieve ronzante mal di testa, forse poteva essere interpretata come un doloroso affetto filiale.
IV
Di notte il telefono di Marco squillò.
- Pronto?- Ciao.- Ciao a te, chi sei?- Non riconosci più la mia voce? Un tempo dicevi che avevo una voce che non si scorda.- Davvero?- Un tempo mi facevi un sacco di complimenti per la mia voce. Forse perché non avevi il coraggio di farmi complimenti di altro tipo.- Oh, ciao Veronica. Scusa, ero ancora preso di sonno.- Diciamo che ti credo, dai.- Perchè mi hai chiamato a quest’ora?- Perchè voglio invitarti a casa mia.- E ci pensi adesso? Hai proprio voglia di farmi conoscere il maritino?- No no. Il maritino è partito. Convegno di lavoro.- Ah.- E comunque ci penso adesso perchè voglio invitarti adesso.- Potrebbe sembrarmi una proposta.- Oh, tesoro. Diciamo che è una proposta.- Di che tipo?- Lo sai.- Non lo so.- Smettila, ne abbiamo parlato.- Ma di cosa?- Lo sai.- Veramente ne abbiamo parlato….cioè, ne hai parlato…al passato.- Beh, ma anche al presente suona bene.- Sentiamo.- Voglio fare l’amore con te.- Oh, non usi il verbo “scopare” come l’altra volta? Era più suggestivo.- Smettila.- La smetto. Comunque no.- No?- No. Non vengo stasera. Non accetto la tua proposta e credo che non la accetterò neanche in futuro.- Perché?- Perché ne abbiamo parlato troppo.
V
Alle sei del mattino Vincenzo si alzò dalla sedia, si stropicciò gli occhi e si allargò in un’energica stiracchiata. Suo fratello dormiva, Vincenzo lo guardò con affetto. Quel suo fratellone lontano ma forte, strambo ma determinato, che la prima volta era scappato di casa a quindici anni, e Vincenzo lo ricordava ancora perfettamente, quando aveva già la valigia pronta e l’afferrò dopo aver sputato in faccia a suo padre che lo voleva mandare a lavorare dal falegname. Con la sua cresta alta, la sua camicia a righe, quando sbattè la porta violentemente e corse a prendere il treno per andarsene dal paese e dalla Sicilia. Come non lo sapeva neanche lui. Perché, bene bene neanche quello.
Quattro soldi fregati dalle borse di mamma che gli bastavano appena per il biglietto, un’avventura giovanile e folle, con il previsto ritorno a casa dopo essere giunto fin davanti allo Stretto di Messina, col grugno sulla sbarra di quella che credeva la sua prigione, tra i traghetti che muggivano e il sapore di continente che gli ustionò l’anima. Poi però ce la fece, a partire. Se ne andò grazie a quello zio dottore che lo incoraggiò, lo finanziò e gli aprì le porte per l’Altrove.Bravissimo grandissimo Marco. Voleva lasciare la Sicilia e l’aveva fatto. Voleva farsi una vita fuori e l’aveva fatto. Questo si dovrebbe fare nella vita, pensava Vincenzo: avere un obiettivo e cercare di raggiungerlo. Da questo dipendeva la felicità, la soddisfazione di sé, l’esaltazione della personalità, la vita vissuta al meglio.Ma che obiettivo era stato, fuggire?Suo fratello – comunque – non sembrava per niente felice.
Vincenzo gli avrebbe voluto chiedere, diretto: “C’è qualcosa che non va nella tua vita?”.Ma non lo avrebbe fatto mai.Gli avrebbe voluto dire: “Al telefono sei sempre entusiasta, brioso, giocoso. Sei sempre che scherzi, fai battute, racconti un sacco di aneddoti. Sembri una persona felice. Ora invece…”.Non avrebbe mai avuto il coraggio. Anche perché già immaginava la conversazione.“Ora invece?”“Ora invece sembri infelice”.“E che c’è di strano? Mia madre sta morendo”.
E sua madre morì quella mattina stessa. Marco tornò dalla sua passeggiata oziosa e trovò la cognatina servizievole con le guance sbiancate di pianto, in mano la mano della morta. Marco se ne restò lì impalato senza dire niente. La testolina della madre, quasi senza più capelli, se ne stava piegata di lato sul cuscino. Aveva gli occhi e la bocca chiusa, nessun segno di resistenza. Soltanto la faccia sembrava ora un po’ più scura, neanche giallastra come pensava avrebbe dovuto essere. Piuttosto un marroncino chiaro, come legno di un albero anemico. Tanto per fare qualcosa, Marco mise una mano sulla spalla di Carmen, che gli rispose alzandosi e addossandosi contro di lui in una specie di abbraccio molle. Marco inorridì sforzandosi di trattenere la sua erezione.
Sempre con Carmen addosso, per togliersi dall’imbarazzo, Marco cominciò allora a meditare sulla figura di sua madre. Una prugna rinsecchita, una cosina di colore incerto persa nel suo mondo di cotone candido, una macchiolina galleggiante in un oceano di latte. Strinse a sè quella donnina forte ma che cazzo, pensò, sono io il figlio. Dovrei essere io quello più sconvolto.
Così lasciò andare quella morbidezza tentatrice e si avvicinò alla morta e quasi le si inginocchiò vicino. Si mise le due mani in faccia ed emise una serie di mugugni. Come sceneggiata era piuttosto ridicola, pensò, ma qualcosa doveva pur fare. Provò allora a piangere, ma riuscì solo a farsi venire voglia di vomitare. Ma neanche quello gli riusciva. Poi accarezzò la faccia della morta e corse le dita lungo i gran canyon delle sue rughe secche. La accarezzò a lungo, forse per provocarsi qualche conato a contatto con quella specie di sughero freddo che era la pelle di lei. Gli sembrava di toccare una vecchia bambola che qualche bulletto in erba si era divertito a brutalizzare con il taglierino.
Arrivò Vincenzo, che aveva il telefono spento per via di un’arringa in corso, e si abbracciò la sua bambolina distrutta sciogliendosi in calde lacrime e silenziose preghiere. Baciò la morta sulle labbra, come Marco aveva visto fare solo nei film, e poi la abbracciò in uno sbuffo di dolore che sembrava straordinariamente sincero.Marco dal canto suo aveva trovato la postura. La sua botte di ferro. Gli erano miracolosamente venuti gli occhi rossi e ora li teneva abbassati come vergognoso della propria esistenza. Borbottava invece che parlare, si teneva in mano un fazzoletto di carta per soffiarsi il naso, si sedeva ad ogni sedia che incontrava per poi rialzarsi subito dopo. Il suo comportamento poteva essere interpretato come quello di chi è troppo addolorato per tenere anche un minimo decoro sociale. Era andato a trovare di nuovo l’abbraccio della cognata. E la sua erezione stavolta si era dispiegata senza più nessuna vergogna.
VI
Seguirono ventiquattr’ore di soggiorno pieno di parenti e conoscenti della morta. Le vecchie zie stampavano baci su tutte le guance che trovavano a tiro. Poi discorsi sospirati, ricordi di vecchi mondi e condoglianze su condoglianze. Marco, grazie alla sua luttuosa botte di ferro, era però riuscito a scansarsi tutte le domande di rito, tipo Come va a Milano, Com’è che Non Ti Sposi, Là è Davvero Meglio che Quà, Vero è che Là Il Lavoro Non Manca Mai.Era così impacciato e nervoso, e aveva gli occhi così gonfi, che in molti si bevvero la versione di un Marco Fantesca sinceramente afflitto a morte, troppo a fondo di un rimorso troppo enorme da sopportare, perchè povero disgraziato, pensava la gentucola di paese, povero piccolo boia di tua madre che ti sei accorto troppo tardi di quanto è tremendo perdere le proprie radici, vivere lontano dai tuoi genitori, lontano dalla tua gente, povero piccolo boia di tua madre, che magari ti sei realizzato nell’emigrazione per poi tornare soltanto per assistere all’emblematico paradossale metaforico spettacolo di tua madre che si secca al sole scorticante della malattia. Povero figlio di mamma crudelmente spiantato, solo nella grande città caotica e violentata dalla fuliggine, in mezzo a gente che parla un altro dialetto, senza affetti, senza calore, senza nessuno che ti conosce da sempre e per quello che sei, povero piccolo boia di tua madre, che adesso sicuramente – oh, lo possiamo dire con certezza – che adesso sicuramente starai tormentandoti per tutto il tempo in cui sei stato assente, adesso che – che tu sia maledetto! – adesso è troppo tardi, adesso che ormai hai una madre sottoterra e un padre senza più anima, povero piccolo boia di tua madre, figlio perduto che in nome della tua stupida indipendenza hai pagato un prezzo troppo alto e lo capisci solo adesso, adesso che è troppo tardi – hai capito che è troppo tardi? – adesso che vorresti riprenderti tutti gli abbracci e i baci e le parole di conforto e le rassicurazioni e la tua identità e il tuo senso sul mondo e le tue radici e la tua ragion d’essere che hai bruciato con la tua avventatezza, perchè – proviamo infinito dolore nel pronunciare queste sentenze – perchè putroppo, non ci possiamo fare niente, ma purtroppo l’hai voluto tu, te la sei cercata – eh si – ma che possiamo farci, non riusciamo a non soffrire per te, addolorarci per il tuo cuore addolorato, perchè non si può non avere compassione per te, povero piccolo figlio perduto, anche se certamente ti si può giudicare, certamente ti si può condannare – certamente, senza pietà, senza pietà! – ma povero piccolo boia di tua madre, bisogna pure avere pietà per te, perchè sei un uomo pure tu, e si fanno sbagli – tutti gli uomini sbagliano – e tutto si paga con il sangue, tutto. Chissà ora quale strazio ti starà divorando, dunque, chissà che sofferenza davanti quel corpicino rinsecchito della donna che ti ha messo al mondo urlando e sprizzando umori dolorosi, che ti ha tirato su con impegno e amore – che ha sacrificato la giovinezza e le sue energie più fresche per tirarti su – e che poi è stata ricompensata con la tua partenza, la tua assenza e la tua lacerazione. Tu, quel figlio che la chiamavi una volta a settimana, poi una volta al mese, poi una volta ogni tanto, e sempre i soliti discorsi da parata familiare, senza contenuti e senza amore, sempre quelle quattro paroline vuote. Sto bene mamma Non ti preoccupare mamma Ho trovato lavoro mamma Ho tutto quello di cui ho bisogno mamma Sto da Dio mamma Tutto apposto mamma Tutto apposto mamma Tutto apposto mamma. E lei intanto che moriva piano piano, che seccava piano piano, esposta al sole scorticante della malattia.
Alla fine Marco aveva lasciato la scena a Vincenzo e sua moglie e se n’era perfino andato nella stanza di lato con suo padre che fissava il televisore a tutto volume. Il vecchio era sempre miracolosamente vestito alla perfezione. Non aveva ancora capito niente, ma c’era da aspettarselo.
Aveva smesso di preoccuparsi della moglie già da un mese pieno. Un giorno la vide che la riportavano dall’ospedale e la coricavano a letto, ormai irrimediabilmente incosciente. Si avvicinò alle lenzuola e si girò verso Vincenzo che stava sistemandola supina.“Se è morta perché non ci facciamo il funerale?” disse al figlio.“No papà, quale morta. Sta male, questo si. Ma i dottori dicono che si riprenderà”.“Ma quando mai. Vincè, tu non mi prendi per il culo. È morta. Se la volete lasciarla qua fate pure, ma io dico che qualche giorno ancora e comincerà a puzzare. Io dico pure che ci aspettano a prendermi a me. Che qui non mi piace più”.