Racconto Luglio 2010, di Tonino Pintacuda. Pubblicato su Pupi di Zuccaro e sul blog personale dell'autore. Una diversa versione di questo racconto è stata pubblicata nell’antologia curata da Fabrizio Piazza “Palermo. Geografie del mistero” della Giulio Perrone editore.
L’estate lumacava scodinzolandoci sui banchi e la panza dello Zio Filippo emergeva tra i pelazzi dell’ombelico tra i residui antecedenti alla morte di Taninu u panellaru. Si capiva che ci sarebbe successo qualcosa in quei tre mesi di libertà che erano appena iniziati.
Il professore manco ci provò a tenerci ancorati ai banchi, si stette tutta la mattina a leggersi il giornaletto porno che aveva infilato tra le pagine del “Manifesto”.
La campanella si era allenata sin da maggio, giorno dopo giorno suonava sempre più presto, un minuto alla volta aveva guadagnato mezz’ora nel personalissimo fuso orario dello zio Filippo.
Noi ci affidavamo a lui che si vantava di aver visto più fiche di tutto l’ordine mondiale dei ginecologi messo assieme. Qualcuno malignava che poteva essere pur vero se si faceva rientrare nel computo tutte le fiche slabbrate stampate su carta su cui Francesco Paolo aveva perso la vista. Lui non si curava delle malelingue, si pettinava le sopracciglia con una spazzola d’acciaio fregata all’officina dello zio e si smerigliava qualche brufolo sparandosi un segone tra le pagine del manuale di informatica.
Francesco Paolo aveva organizzato tutta la nostra estate, in cambio di venti euro a testa ci avrebbe portato lì dove le fiche abbondavano vogliose. Lui era cresciuto a colpi di cinghia e bestemmie, suo padre gli aveva raddrizzato la schiena e i sogni e ora lui spiccava nel mucchio. Si faceva strada con intrallazzi e piccole estorsioni, gli piaceva cucire ragnatele di dissapori che servivano a ristabilire il suo ruolo di capo. Noi che manco avevamo il coraggio di andare all’edicola a comprare il calendario di Max lo veneravamo.
Era lucido e pratico nelle sue decisioni: forse un po’ squadrato ma con tutti quei colpi di cinghia e quei segoni non potevamo aspettarci di meglio. Noi eravamo una dozzina di sbarbatelli, così timidi da nasconderci dietro i brufolazzi che ci sfregiavano la faccia. Avevamo la voce bianchiccia, appena ingrigita da qualche incontrollabile tono basso. Per capirci, sembravamo i cugini di campagna con i pantaloni ancora più stretti.
Tutto l’anno avevamo risparmiato per riuscire a frequentare il prestigioso tour erotico che Francesco Paolo in un impeto di creatività aveva intitolato “La Mela Bucata”. Ciccio Spastico gli aveva chiesto delucidazioni sul nome. Ciccio era in grado di stare attaccato alla playstation per tredici giorni di fila, rimandando l’inevitabile evacuazione sino a diventare dello stesso colore della Preside che soffriva di una stitichezza incrosta-budella da quando aveva trovato suo marito che stantuffava una bambola gonfiabile ordinata sul sito della MariuzzAngel Sucking Cock Enterprise.
Francesco Paolo gli aveva risposto: “Hai presente la favola di Adamo ed Eva, il serpente, la mela e tutto il resto? Bene, io la vedo così: quella gran troiona di Eva stufa di quel paradiso voleva impiccantire la situazione con uno spettacolino hard, aveva chiesto aiuto al biscione che le aveva consigliato di usare la mela, Eva doveva alzarsi sulla punta dei piedi per acchiappare la melaccia che penzolava tranquilla dall’albero. E, nel farlo, doveva far vedere a quel gonzo d’Adamo uno sculettamento da manuale. La mela bucata si riferisce all’inevitabile conclusione della prima pornonovella della nostra cultura. Noi faremo pure così, bucheremo più mele possibili. Parola di Francesco Paolo, il leggendario Sfardamutande. O ci riesco o vi restituisco tutti i picciuli. Lo giuro su tua madre”.
A Ciccio Spastico ciondolava la testa, si figurava tutta la faccenda secondo la rigida logica dei videogiochi, uno sparatutto in 3D, lui aveva solo la sua mazza e una missione: soddisfare sino all’estasi più donne possibili. Avrebbe bucato almeno due dozzine di mele.
Francesco Paolo aveva avuto un’idea geniale: accodarsi al viaggio dell’oratorio. Con la sua parlantina spaccacoglioni era andato da Padre Barbone, un gesuita vecchio, sputacchiante e con le piattole. Al parrino s’era presentato come un peccatore bisognoso di sostegno spirituale, una pecorella sperduta che aveva taciuto per troppo tempo la sua giovane coscienza per dedicarsi con ardore a migliaia di atti impuri. Padre Barbone si grattò la minchia in segno di ammirazione, riversò un doblone di catarro nella sputacchiera e dette il suo assenso: Francesco Paolo e quelle altre dodici anime perdute potevano seguire la settimana di silenzio e preghiera. Il vero obiettivo di noi tredici peccatori erano le tette delle quindici giovinette del dopocomunione, era una verità universalmente riconosciuta, le baciapile erano delle grandissime troione. E avevano dei capezzolini che frizzavano contro le magliette che il sudore appiccicava alla pelle, ne sentivamo l’odore a metri e metri di distanza.
E così siamo partiti con dieci scatole di preservativi a testa, male che vada li lanceremo pieni d’acqua su Francesco Paolo se ci tira la sola. Perché sta cosa del viaggio della speranza incominciava a puzzare di marcio, il volpone era pimpante, con 240 euro in più in saccoccia aveva già messo gli occhi e una decina di spunti per seghe su Marcella, la stratettuta responsabile del ritiro spirituale. Era lei che doveva tenere separati noi maschi dalle sue bambine. Lei e le sue tette ce la mettevano tutta, tra noi e le fanciulle aveva messo pure due piani zeppi di gesuiti, il ritiro si svolgeva nella bella villa che un signorotto aveva lasciato in eredità ai gesuiti. Sei piani in stile liberty.
Francesco Paolo non l’avevamo mai visto così servizievole ed educato, s’era pure pettinato i peli del culo per fare colpo su Marcella che, da grande e consumata puttanona, agitava il suo potenziale erotico per far sfacchinare il poveraccio. Non sapeva più che fare per sedurla, aveva già speso più della metà del capitale nello spaccio della canonica dove il prete portinaio arrotondava le entrate vendendoci magnum e cuccioloni a prezzi astronomici. L’astinenza dai dolci era compresa nella settimana di silenzio e preghiera, quindi le trasgressioni dovevamo pagarle a caro prezzo.
Avevamo adocchiato le pupe giuste per noi, Ciccio Spastico aveva puntato lo sfilatino su Maria Eleonora che portava un vestitino fiorato semitrasparente che dopo una giornata di lavoro e preghiere le si attaccava addosso mettendo in risalto il suo fisico in piena fioritura, ogni volta che il vento le alzava di qualche millimetro l’orlo del vestito, Ciccio aveva un attacco, finiva a terra a incularsi i lombrichi per stemperare l’eccitazione. Il massimo della sua vita sessuale sino ad allora era stato sognarsi Lara Croft con le zizze appuntite che, a colpi di pistola, gli faceva saltare via i vestiti prima di saltargli addosso.
Luigi Sciddicato aveva scoperto che con la poesia riusciva a rincitrullire Luisetta che era piccola e pelosa, a ogni endecasillabo Luisetta si slacciava un bottoncino della maglietta, consapevole che passata una certa età i suoi peli sarebbero stati un ostacolo blocca-approcci. E poi scoprimmo che almeno su una cosa Francesco Paolo non aveva mentito: pure le femmine hanno gli istinti sessuali. Eravamo sconvolti: anche loro erano un ammasso in ebollizione di ormoni e curiosità. Proprio per questo Padre Barbone passava la notte a passeggiare per i corridoi, con gli occhi che ci spiavano nel buio insivato dei corridoi, pareva una civetta, passeggiava con le gambe magre magre arraspandosi la minchia e provocando un rumore che ricordava quando Vincenzo il Salumaio infilava i pezzi di cacio nella grattugia elettrica.
Passavano così le giornate, pregando, elemosinando stentate pomiciatine da consumare quando Padre Barbone andava a cagare dopo il pranzo. La notte c’era l’inevitabile segone collettivo per stemperare l’eccitazione accumulata durante tutta la giornata. Padre Barbone già il secondo giorno aveva commesso il suo primo errore. Colpito da come Francesco Paolo lavorava senza mai lamentarsi, sottoponendosi ai lavori più schifosi, tra cui spiccavano le spugnature a Padre Cosimo, che puzzava di vecchie scoregge e, quando lo bagnavi, puzzava ancora di più. Padre Barbone fu tanto sorpreso che senza pensarci si grattò per bene e nominò Francesco Paolo nostro responsabile.
Restammo tutti alluccuti: cercavamo una fessura per farci strada e Padre Barbone ci aveva aperto nientemeno che un traforo.
Non potevamo fallire, per quagliare finalmente con le nostre donzellette dovevamo però far sparire il sergente di ferro, quella Marcella che s’era piazzata nei sogni erotici di Francesco Paolo. Ci riunimmo nei cessi del terzo piano, lì Francesco Paolo faceva le spugnature a Padre Cosimo che, oltre a puzzare di piscia di tirannosauro, era pure sordo come un’intera fabbrica di campane. Tra una spugnatura e l’altra affilammo il nostro piano.
Ciccio Spastico aveva saputo dal prete portinaio che Marcella aveva un piccolo vizietto, le piaceva mettersi una vecchia tonaca come camicia da notte. Il prete portinaio era un vecchio porco, secondo lui quella con le tette grosse aveva qualche fregola particolare per i parrini e la sublimava così, andando a letto con la vecchia tonaca e nient’altro.
Francesco Paolo era sbiellato: se Marcella voleva sfogarsi con un parrino, lui avrebbe preso volentieri più voti della vecchia Democrazia Cristiana. Tutto avrebbe fatto per le promesse calde e bagnate che Marcella teneva incastrate in quell’impeccabile condotta.
Mancavano poche ore e finalmente avremmo consumato quello per cui c’eravamo allenati sin dalla nostra prima erezione. Io aveva messo gli occhi su Carmelina che era bella, con le guance rosa e gli occhialetti sciddicati sul naso, pareva quella gran gnocca di Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, coi capelli attaccati e gli occhialetti tondi.
Avevamo pagato e pregato, ci sentivamo come dovevano sentirsi i crociati prima di maciullare i mori del feroce Saladino. Dio lo voleva. Eravamo eccitati e blasfemi, un coktail micidiale. Padre Barbone doveva aver odorato qualcosa, e non erano le puzze di Padre Cosimo. Per calmarci ci fece vedere i Simpson che poi bilanciò con dodici puntate di “Settimo Cielo”. Ci portò pure una vascazza di gelato che pareva spacchio di toro, e per giunta lo sganciava in stitiche palline sopra dei coni che sapevano di pergamena. Non contento di questo, ogni tre coni si grattava le palle beate con la paletta del gelato. Vomitammo tutti, pure Marcella che trovò nelle sue due palline al limone quattro pelazzi di minchia e due cimici.
Le orazioni sembrarono liberatorie, cantammo i salmi con cuore lieto e con i piselli drizzati verso il cielo, crogiolandoci nel verde dei nostri sogni di sesso sfrenato e senza implicazioni. Nessuno protestò quando Padre Barbone ci spedì a letto. Erano le nove di sera.
Francesco Paolo s’attardò nella pulizia della sala mensa, strisciava quel mocio vileda con sentimento, sembrava quasi ballarci: una versione brufolosa e arrapata della Cenerentola di Walt Disney. Il mocio leccava il pavimento e i minuti passavano, il grande orologio della parete con Sant’Ingnazio che cavalcava un’ostia gigante segava la nostra attesa, sentivamo ogni minuto scivolarci addosso, liscio, verso la punta dolorante delle nostre mazze.
Nessuno riusciva a concentrarsi, Ciccio aveva portato il calendario di Alessia Marcuzzi e lo sfogliava freneticamente. Sulle tette di febbraio si bloccò pure lui. Mancavano solo due ore. Due ore e avremmo perso tutti la verginità. Io m’immaginavo un urlo liberatorio collettivo, in perfetta sincronia avremmo attraversato ciascuno l’imene della propria picciridda. Teoricamente sapevamo tutto, la pratica era un’avventura che non ci spaventava. Ogni pomeriggio della nostra vita l’avevamo passato sognando quel momento sulla tavolozza chiusa del cesso, con le mani vogliose a leggere tette con le dita come se fossero state fotografate in braille. Maceravamo nel nostro sugo ormonale.
L’attesa era quasi finita, Francesco Paolo si ritrovò un mozzicone di mocio in mano, aveva continuato a stricare il pavimento sempre più veloce. Le lumache tiravano fuori le corna a quell’ora, noi facevamo lo stesso. Se c’era qualche dubbio, l’esperienza del gelato lo aveva disintegrato. Avevamo sopportato tutto. Una fighetta soffice soffice valeva tanto? Sì, ci rispondemmo mentalmente in coro.
Marcella dormiva già, nuda dentro la tonaca. Francesco Paolo lasciò cadere il mocio e andò a fare quello per cui era nato.
Ci sentivamo come i topazzi che passano le giornate a intingere le code pelose nell’acqua tirchia e fitusa del fiume Oreto. L’attesa era finalmente finita. C’erano due strade, entrambe rischiose. O giocarsi la vita sul cornicione o superare l’ostacolo addentrandoci nel dedalo di viuzze che si snodava sotto la pancia dell’edificio. Nessuno di noi si sentiva di sfidare la legge di gravità, solo Batman e l’uomo ragno si muovevano lievi lievi sui tetti delle rispettive città. Noi preferivamo strisciare. Lo facevamo da una vita.
Sotto il pavimento della cucina c’era una botola che portava dritta in cantina, decidemmo di servircene, dalla cantina poi avremmo risalito il falso pilastro in cui correvano i tubi della fognatura. Non eravamo in America, non c’erano le condutture dell’aria condizionata.
A quell’ora Francesco Paolo aveva già consumato, almeno ci speravamo. Altrimenti ci finiva come nel vecchio proverbio che le nostre madri ci avevano spillato in testa: spesso chi va per fottere ci resta fottuto.
Rivolgemmo un’ultima occhiata a Sant’Ignazio e alla sua ostia gigante e ci calammo nel budello dove si schiantavano tutte le nostre speranze.
Io guidavo il gruppo e coccolavo i miei sogni d’amore. Da sempre mi dondolavo l’idea di regalare l’ingombrante verginità a una ragazza con gli occhi turchini, stavo per farcela. Bruciavo di passione, mi spingevo in quel buio, sempre più dentro al culo del peccato.
Se ci avessero scoperto ci avrebbero rinchiuso nella cripta dei cappuccini a Palermo, insieme alla bambina mummificata e alla sua bambola. Sembravamo i Beati Paoli, avvolti nei sacchi meri dell’immondizia per evitare di macchiarci e impuzzarci i vestiti. Ciccio aveva gli occhi fosforescenti a forza di stare incollato alla playstation, lo usavo come copilota, bastava tenere le braccia alzate e carezzare il tubo della fogna all’incontrario, sino a ciascun cesso. Saremmo sbucati dritti dritti nel cesso delle ragazze. Scavalcando così le telecamere e le bobine di filo spinato strappa-coglioni che Padre Barbone aveva messo in giro per i corridoi.
Continuavamo a salire, uno sull’altro, il falso pilastro era bello largo, di sicuro i vecchi proprietari lo usavano per nasconderci periodicamente qualche parente che aveva delle grane con gli sbirri. Ero stato io a scoprire quel passaggio segreto, cercavo un posto dove ammucciare i giornaletti porno e m’ero imbattuto nella nostra salvezza.
I tubi avevano dei rampini che li tenevano attaccati al muro, li usammo come una scala a pioli e continuammo la nostra salita. Passo dopo passo s’avvicinava la nostra meta.
- Ciccio, passami il mazzuolo. Se ho fatto bene i conti siamo sotto i cessi delle picciridde. Basta sganguliare questo falso telaio e passiamo dalla merda alla fica.
No, i calcoli erano corretti. Finimmo tutti nel cesso delle ragazze, lo avevo riconosciuto da quei cestini speciali che servono solo per buttare gli assorbenti già zuppi di sangue mestruale. Era uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e tu ti trovi lì, ritagliato dal contesto, come se stessi rivedendoti in tempo reale la moviola di quello che ancora devi dire e lo vuoi gridare a tutti che stavolta non avrai paura di poter sbagliare ancora. L’adrenalina ti pulsa sincera in corpo, i fiumi di sudore ci mettono un’eternità a scivolarti via dalla fronte. Li avevo tutti dietro, li sentivo, avevano paura. Paura per quello che avevano sognato sin dalla prima erezione consapevole.Era sempre la solita faccenda, la distanza che separa i sogni dalla realtà è un pelo di fica su un abisso. Mio padre me lo diceva a cadenza regolare, puoi schivare perfino una raffica di mitra ma mai e poi mai potrai resistere alle promesse che svolazzano tra le cosce di una fimmina, dopo quella perla concludeva il discorso con un vecchio proverbio: “tira più un pelo di fimmina che i buoi del carro della Madonna della Milicia”. I buoi del carro della Madonna del Santuario di Altavilla della Milicia sono sei, muscolosissimi, capaci di spostare i diversi quintali del carro monumentale, l’iperbole era azzeccata come poche.E ora ne capivo tutta la sua terribile verità. Nelle faccende di sesso siamo tutti indifesi, dove siamo più umani siamo fragili e scoperchiati. Capimmo solo allora che Francesco Paolo era ancora vergine, come e più di noi. Il dubbio divenne certezza quando Casimiro Sconzolato attraversò pure lui la breccia che avevamo aperto nel cesso delle fanciulle.L’alba ci trovò con una luce tutta nuova negli occhi.