Un ragazzino e i suoi fantasmi

Creato il 03 aprile 2014 da Theobsidianmirror
Questa storia l’ho già raccontata altre volte su questo blog, ma sono passati più di due anni dall’ultima volta e dubito che qualcuno se la ricordi, anzi, dubito addirittura che qualcuno possa averla mai letta. È la storia di un ragazzino delle scuole medie che vedeva nascere dentro di sé una delle passioni che lo avrebbero accompagnato per sempre: quella del cinema. C’era una sala a 100 metri da casa mia dove trascorrevo le domeniche pomeriggio, a volte con qualche amico, più spesso da solo, sgranando gli occhi sognanti di fronte ad inarrivabili eroi. Erano gli anni di Guerre Stellari e della Febbre del Sabato Sera. Allora non era strano che un bambino potesse avventurarsi al cinema da solo. Il mondo non era come oggi, pieno di maniaci assassini e stupratori di bambini (o forse c’erano anche allora, ma noi eravamo più spensierati e incoscienti di quanto siamo oggi), per cui i miei genitori mi permettevano tranquillamente di uscire da solo il pomeriggio e rientrare per l’ora di cena. I soldi della mia misera paghetta settimanale finivano tutti in quella sala cinematografica di paese, che resistette per diversi anni alla crisi del settore (ad un certo punto tentò di salvarsi passando al porno, per poi chiudere definitivamente i battenti alla fine degli anni Ottanta). Oggi credo abbia che in quegli spazi abbia trovato posto una banca, ma non ne sono nemmeno certo. Il cinema di quei tempi era incredibilmente vario: guardavo di tutto, dalle sparatorie dei western agli inseguimenti dei mitici polizieschi all’italiana con Maurizio Merli, dalle scazzottate di Bud Spencer ai gialli di Dario Argento. Se penso che oggi i bambini di 10 anni si impaludano con Harry Potter e i Transformers, ebbene direi che sono davvero contento di essere nato (ben oltre) 40 anni fa.
Una delle cose che più adoravo di quel cinema era la particolare predilezione a proiettare, almeno una domenica su due, film horror. Passavano titoli che sarebbero in seguito divenuti dei cult assoluti, come lo “Zombi” di Romero o il “The Fog” di Carpenter, passavano i goduriosi film sugli animali killer, come “Lo squalo” di Spielberg o come “L’orca assassina” di Michael Anderson. Ma ciò che veniva proiettato con maggior frequenza era il trash più trash che memoria d’uomo ricordi, come quei clamorosi, farlocchissimi, Zombi-sequel diretti da Lucio Fulci e altra roba che oggi fortunatamente ho rimosso.
Ma tra tutti quei fotogrammi che scorrevano freneticamente davanti ai miei occhi, ce ne sono stati alcuni che ancora oggi rivedo con un certo disagio e una inspiegabile angoscia. Sto parlando naturalmente del primissimo ed originale “Phantasm” di Don Coscarelli (o forse farei meglio a chiamarlo “Fantasmi”, così come fu distribuito in Italia all’epoca), al quale è dedicato questo post e quelli che seguiranno da qui alla fine del mese.
Prima di parlare nello specifico di del film, argomento che mi riservo di farvi attendere ancora per qualche giorno, volevo cercare oggi di capire con voi i motivi per cui “Phantasm” sia divenuto il mio film di culto, provando a magari a mettere un po’ d’ordine tra i ricordi sbiaditi di quel ragazzino e la lucidità (o presunta tale) della versione adulta dello stesso.
La storia narrata da Coscarelli vede come protagonista Mike (Michael Baldwin), un tredicenne insicuro che, dopo la morte dei genitori, vive nel timore perenne che anche il fratello maggiore, Jody (Bill Thornbury), possa abbandonarlo. Questo è il primo punto su cui riflettere. Il tema della perdita e dell’abbandono è un classico della psicanalisi e se, come ha fatto Coscarelli, lo materializziamo nel corpo di un ragazzino, ecco che subentra inevitabile l’identificazione. Secondo punto: un giorno, dopo aver assistito al funerale di un amico di famiglia, il giovane Mike si accorge che il becchino (Angus Scrimm), al termine della cerimonia, cioè quando tutti se ne sono andati, anziché terminare di sotterrare la bara la carica sul carro funebre e se la porta via, chissà dove. Ecco un altro tema interessante: la paura della morte o, più nello specifico, la paura di ciò che accadrà al nostro corpo dopo la morte. Terzo punto: Mike comincia ad indagare, nonostante le proteste di Jody che, incredulo, lo reputa un ragazzino con troppa immaginazione. Ciò che Mike scoprirà non ve lo anticipo, ma posso dirvi che di quei cadaveri, sottratti alla terra, il nostro becchino saprà bene cosa fare. Il terzo tema potrebbe quindi essere la paura del dopo, cioè del destino dell’anima, semmai ne esista una. Quarto punto: il rapporto tra i due fratelli appare per taluni aspetti, come dire, quasi morboso. Orfani, come detto, di entrambi i genitori, si inseguono, cercando di proteggersi a vicenda, ma allo stesso tempo si respingono. Il tema qui è quello della famiglia vista come l’unica possibile difesa dalle forze del male.
Non mi resta che proiettare sul “me stesso bambino” i quattro temi del film e vedere se riesco a cavarne qualcosa di sensato. Come dicevo prima, il blogger che oggi trovate qui a scrivere queste puttanaterighe era, in quegli anni, un coetaneo del Mike-personaggio di “Phantasm”. Un ragazzino come Mike ma con una differenza sostanziale, cioè quella di essere figlio unico. Mi immagino già orde di psicanalisti pronte ad indicare nella mancanza di fratelli e sorelle il nocciolo della questione. Personalmente non credo di aver mai invidiato i fratelli e le sorelle degli altri, ma forse è normale, considerato il fatto che non ho mai provato l’esperienza di condividere ciò che normalmente si condivide tra fratelli. Resta il fatto, qualcuno osserverà, che forse non è del tutto normale che un ragazzino di tredici anni se ne veda al cinema da solo la domenica pomeriggio a guardare film dell’orrore.
Per quanto riguarda la paura della perdita, penso fosse un concetto troppo prematuro per poterlo considerare. Si può dire che in quegli anni vivevo al riparo dalle brutture del mondo reale. È vero, avevo già le mie piccole fregole pre-adolescienziali, i miei piccoli traumi da innamoramenti randomici non corrisposti, ma non c’era nulla che mi spaventasse davvero, almeno a livello conscio.
A livello inconscio, beh, di quello credo si possa anche parlare. Sebbene la morte non avesse mai bussato direttamente alla mia porta, sentivo che qualcosa di terribile sarebbe potuto un giorno capitarmi, anche se non ne avevo ben chiare le modalità. Quei cimiteri, dove talvolta mi capitava di venire portato in visita ad antenati mai conosciuti, mi mettevano nella condizione di farmi delle domande. Cosa ci faceva tutta quella gente sotto quelle lapidi? Chi erano prima di finire in quel posto? Erano come me? Ma erano davvero là sotto, oppure erano “in cielo” come mi si diceva? Ma se erano in cielo, allora cosa c’era là sotto?
Ripensandoci adesso credo che il succo del discorso sia tutto qui. Il film di Coscarelli aveva dato forma alla mia domanda “proibita”, al mio incubo più segreto: cosa ne sarà di noi? Oggi, trent’anni dopo, non l’ho ancora capito.


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