Franco Interlenghi in “Domenica d’agosto”, 1950, Luciano Emmer (Wikipedia)
E’ morto questa mattina, giovedì 10 settembre, a Roma, sua città natale (1931), Franco Interlenghi, attore cinematografico e teatrale, il cui esordio sul grande schermo risale al 1946, quando, a soli quindici anni, la stessa età del coprotagonista Rinaldo Smordoni, interpretò il giovane lustrascarpe Pasquale nel film Sciuscià di Vittorio De Sica. Un ruolo cui offrì, in tutta la spontaneità propria di “attore preso dalla strada”, quell’aria sbigottita e malinconica propria di chi ha visualizzato l’impossibilità di perseguire l’idea, sospesa fra l’utopistica speranza e il sogno, di un’umanità se non migliore, almeno attenta alle esigenze dei più deboli. In un ambiente sociale sconvolto dalla tragicità della guerra, il mondo dei ragazzi diviene speculare a quello degli adulti e suo antagonista, vive in base a regole diverse, con conseguente reciproca incomprensione e annullamento violento dei meno forti, psicologicamente in primo luogo.
A questi ultimi non resta altra possibilità che vedersi offrire un immane grido di dolore, idoneo a scuotere sopite coscienze, come quello, indimenticabile, rivolto da Pasquale all’amico Giuseppe, ormai esanime, che chiude il citato Sciuscià.
Rinaldo Smordoni e Franco Interlenghi (Sciuscià, 1946, V. De Sica)
Il volto da bravo ragazzo, non disgiunto da un certo romantico idealismo, gli permise d’interpretare a partire dagli anni Cinquanta tutta una serie di parti a lui certo congeniali, ora briose ora drammatiche, con titoli quali Domenica d’agosto (1950), Parigi è sempre Parigi (1951), entrambi diretti da Luciano Emmer, Don Camillo (1952, Julien Duvivier), I vinti (1953, Michelangelo Antonioni), per poi arrivare a film che lo imposero anche all’attenzione della critica, dopo la conseguita notorietà presso il pubblico. Ecco quindi I vitelloni di Federico Fellini, 1953, dove Interlenghi diede volto all’introverso Morando, forse il più maturo del gruppo dei cinque perdigiorno che si lasciano vivere in una città di provincia (probabilmente la Rimini del regista), comoda placenta dove coltivare le illusioni di una vita diversa, senza mai impegnarsi in alcun lavoro, tra noia ed ignavia, seduti ai tavolini di un bar o chini sul biliardo, con qualche breve attimo di maturità imposto per lo più dall’esterno.