Jacques Rivette (Wikipedia)
E’ morto lo scorso venerdì, 29 gennaio, a Parigi, il regista e critico cinematografico francese Jacques Rivette (Rouen, 1928), fra gli ultimi esponenti della Nouvelle Vague e sicuramente, fra i cineasti che aderirono al suddetto movimento, quello rimasto più fedele all’originaria impronta sperimentale, volta a far sparire, in nome della “politica degli autori” e dei diritti del regista, padrone del linguaggio cinematografico e quindi autore del film, l’accademismo ereditato dagli anni ’30, rifacendosi a nuovi modelli di riferimento (tra i quali Roberto Rossellini).
La “nuova ondata” del cinema francese prese piede in particolare tra la primavera del ’59 e l’autunno del ’63: la macchina da presa tornava nelle strade, si riprendeva contatto con la realtà, abbandonando l’artificio degli studi cinematografici, si cercavano attori nuovi, che potessero dare una patina di autenticità ai personaggi interpretati. La sceneggiatura non veniva poi ritenuta vincolante, almeno relativamente ad una rigida logicità spazio-temporale, e si dava preferenza ad una fotografia vicina al documentario, insieme ad una illuminazione il più possibile simile alla luce naturale.
Rivette, alla pari di molti suoi colleghi dell’epoca (Eric Rohmer, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol), iniziò a lavorare come critico cinematografico nel 1950, presso La gazette du cinéma per approdare due anni più tardi alla redazione dei Cahiers du cinéma, divenendone nel 1963 il caporedattore, facendo sì che la linea editoriale seguisse un percorso artistico e culturale ad ampio raggio, con frequenti incursioni nella letteratura e nel teatro, arti che influenzarono il suo debutto come regista, il cortometraggio Le coup du berger, 1956, dopo aver alternato l’attività di critico militante alle prime esperienze “sul campo” quale assistente o collaboratore alla regia. Il primo lungometraggio diretto da Rivette fu Paris nous appartient (1968), all’interno del quale si notano già le linee che saranno proprie della sua filmografia, a partire dallo sfondo parigino sul quale si stagliano in una sorta di flusso continuo, riportando sullo schermo l’andamento proprio della vita reale, le vicende di un aspirante regista alle prese con la messa in scena di un’opera teatrale in circostanze per lo più fortuite e di una donna che si ritiene vittima di misteriose cospirazioni, offrendo così la visualizzazione di una suggestiva confluenza fra vero e falso, che sarà una costante della sua cinematografia.
La seconda opera di Rivette, La religieuse, 1965, trasferimento cinematografico di una rappresentazione che già aveva diretto in teatro, tratta da un romanzo di Denis Diderot (scritto nel 1758 e pubblicato postumo nel 1796), la cui narrazione, rigorosa ed austera, era incentrata sulle drammatiche esperienze di una ragazza del Settecento costretta dai genitori a entrare in convento, subì l’intervento della censura, tanto da poter circolare solo due anni dopo, con un nuovo titolo (Suzanne Simonin, la religieuse de Denis Diderot). Ma è dal terzo film che Rivette mette in luce tutta la potenzialità propria di una libertà espressiva capace offrire concreto spazio alla sperimentazione: L’amour fou (1969) nella durata di quattro ore e mezzo racconta ancora una volta un suggestivo parallelismo fra arte e vita, l’allestimento di uno spettacolo teatrale tratto dall’Andromaca di Racine e il matrimonio ormai in crisi tra l’attrice Claire (Bulle Ogier) e il regista Sébastien (Jean-Pierre Kalfon).
Nulla a che vedere, comunque, con il successivo ed affascinante, pur nella sua intricata frammentarietà, Out one: noli me tangere, 1971, dall’originaria durata di dodici ore e quaranta (venne poi ridotto a 255 minuti e riedito nel 1974 col titolo Out one: spectre).
Le tematiche del teatro, la possibile confluenza fra diversi tipi di realtà, l’orditura misteriosa di un clima cospirativo sono dunque tematiche presenti un po’ in tutta la produzione di Rivette (L’amour par terre, 1984, L’amore in pezzi; La bande des quatre, 1989, Una recita a quattro; Va savoir, 2001, Chi lo sa?), in equilibrata alternanza fra sceneggiature spesso in divenire, idonee a mutare registro in corso d’opera per assecondare anche le varie interpretazioni attoriali e lavori invece più levigati e costruiti, meno ridondanti nell’esposizione, come nella pellicola dedicata a Giovanna D’arco (Jeanne la Pucelle, 1993, diviso in due parti, Les batailles e Les prisons). Come al solito nel ricordare la figura di Rivette mi sono limitato, per ragioni di brevità espositiva in primo luogo, ai titoli più rappresentativi, almeno a parer mio, della sua filmografia, ricordando in chiusura il suo ultimo lavoro, datato 2009, Questioni di punti di vista (36 vues du Pic Saint-loup), definitivo ritratto di un autore capace di rendere il cinema un esemplare e personale mezzo di sperimentazione, idoneo ad illustrare il quotidiano all’interno di un rapporto speculare fra arte e vita, assecondando un vicendevole “scambio di coppia” tra finzione e realtà.