UN TEMA E UN LIBRO: Prosa poetica; Daniela Andreis: aestella

Da Narcyso

Che cosa ci puó raccontare la prosa della vita senza la grande costruzione del romanzo, che isola il caso creando l’esempio perfetto, il significato minimo definitivamente compiuto?
Rimane, in contraltare, il frammento diaristico, l’appunto, quasi sempre destinato alla pubblicazione postuma, perché ad esso nemmeno l’autore riconosce dignitá letteraria ma il ruolo specifico di documento, di testimonianza. E sarebbe da indagare con maggiore cognizione di causa, ad esempio, il rapporto tra “essai” e “quaderno”, laddove l’essai si identifica come genere compatibile con una qualche forma di visibilitá, mentre i quaderni possono solo essere eventualmente destinati a una riesumazione postuma.
Evidentemente si tratta di funzioni attinenti la forma, prima che il contenuto; il rapporto tra pubblico e privato: semplificazione/appunto da una parte – con conseguente “rischio” dell’invenzione di uno stile piú colloquiale e moderno – declinazione di uno stile all’interno del contesto di riconoscimento/censura del modus sociale, del milieu letterario, dall’altra.
C’é un altro genere da indagare – in realtá quasi sempre frequentato come territorio di esplorazione, di pastiche, di passaggi eventuali: si tratta del laboratorio della prosa poetica, genere a tutti gli effetti utilizzato sia in funzione di un’accellerazione delle esigenze di stilizzazione della prosa, sia di un abbassamento di tono – quasi sempre con la tradizione ritenuta aulica – della poesia. Una fetta importante della poesia maturata a partire dagli anni sessanta e settanta, potrebbe essere studiata nominando la musa minore della prosa poetica, ma senza poi dimenticare gli esempi storici, a partire dai poeti della Voce, le sperimentazioni di alcuni “novissimi”; e poi Pavese, Sereni, non a caso poeti di riferimento di un lirico puro come De Angelis; e ancora la celebre definizione di “corrente lombarda” data da Contini, che identificava nell’abbassamento tonale degli slanci, proprio una redifinizione delle potenzialitá della lirica, costretta improvvisamente a fare i conti con le povere cose dotate di povera vita – e il problema é sempre stato poi inventare uno stile che le affrancasse da un realismo di maniera ma che recuperasse, peró, il miglior realismo ricatapultandolo nell’alveo della lirica così salvata dalla secolare tradizione petrarchesca.

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Daniela Andreis, aestella, incerti editori 2011


Leggendo le prose di Daniela Andreis, pongo la questione della necessitá di un genere, piuttosto che di un’ulteriore sperimentazione delle sue potenzialitá. Nel delineare il rapporto privato con l’altro, questi testi scelgono il genere che per eccellenza piú lo rappresenta: l’epistolario. Il genere, insomma, esaurite le scorte metaletterarie, non é piú padre padrone dell’esercizio poetico, col solo scopo di rappresentarne il dominio. Questo perché “ci sono parole che accadono, dense come fatti” (Vincenza Scuderi in una breve nota), e non speculazioni.
aestella é in effetti personaggio non definito, da qui l’urgenza del gesto, del trovare parole, imparare a “fissare la vita nella sua punteggiatura”.
Queste prose, dunque, sono scritte per la definizione dell’altro nello stacco della distanza – forse dell’abbandono – e quindi per scegliere un modo di stare nella separazione che le parole ci offrono come esperienza del mondo.
“tutto é cominciato con la parola addiaccio. (…) Addiaccio entró nella mia vita e la divise in due”.
Tra questi “due”, c’é quell’infinito contenitore che é la vita, assai restia a mascherarsi di una forma bruta, ma padrona e tiranna nel chiedere splendore, canto alto, complicitá, complessitá e semplicitá.
“Ma in mezzo, in mezzo, io so che brulica tutto quello che unisce le due parole, il silenzio ronzante del mondo, la mia anima spaccata in due da un’accetta”…
p.37
La scrittura poetica esperimenta solo quando si tratti di ripotenziare la sua naturale vocazione all’ordine, alla possibilitá di dire il massimo col massimo risparmio di mezzi. Prima di giungere a una strana forma della necessitá, occorre che il corpus della poesia coincida totalmente col corpo del mondo di cui si nutre, e sará questa la poesia dell’attesa, delle forme non generate ma riprodotte, prima delle scelte che i poeti sempre dovranno fare per giungere alla loro maturitá e quindi alla loro necessaria morte.

“Ogni cosa sento da questo sottomondo opaco,e soprattutto te, la congiunzione semplice che a te piú non mi unisce”.
p. 41

Basilea, 4 luglio


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