Un Tibet senza il Dalai Lama?

Creato il 13 aprile 2011 da Milleorienti

Il 10 marzo il XIV Dalai Lama del Tibet, Tenzin Gyatzo, ha annunciato ai tibetani di voler rinunciare a ogni  carica politica, per ricoprire solo il proprio ruolo di guida spirituale del mondo buddhista tibetano. (Il Dalai Lama, lo ricordo, è venerato come incarnazione di Avalokiteshvara, il Bodhisattva della compassione).
L’annuncio delle sue “dimissioni” politiche – che apre scenari inediti nei difficili rapporti fra tibetani e cinesi -  ha fatto subito il giro del mondo.
E sta suscitando un vivace dibattito sulle sue conseguenze fra i tibetani in esilio e quelli in patria. A questo proposito vi invito a leggere lo stimolante contributo di un prestigioso intellettuale tibetano, Jamyang Norbu, intitolato «Resolving the Dalai Lama resignation crisis» e apparso sul blog Free Tibet, ma anche l’altrettanto interessante articolo di Carlo Buldrini pubblicato oggi dal quotidiano Il Foglio con il titolo «Orfani del Dalai Lama». Con il permesso di Buldrini, incollo qui sotto il suo articolo. Mi auguro che questi contributi suscitino anche su MilleOrienti un dibattito sul futuro della democrazia in Tibet, che con questa decisione del Dalai Lama sembra giunto a uno storico punto di svolta. MR
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«Orfani del Dalai Lama», di Carlo Buldrini, da Il Foglio del 13/04/2011

Le elezioni si sono svolte il 20 marzo ma sarà solo il prossimo 27 aprile che si saprà chi, tra i tre candidati Lobsang Sangay, Tenzin Namgyal Tethong e Tashi Wangdi, sarà stato eletto per i prossimi cinque anni “kalon tripa” (primo ministro) del Governo tibetano in esilio. Sarà lui a ereditare, dopo 369 anni, il potere politico che fu già dei Dalai Lama.

Il 10 marzo di quest’anno, a Dharamsala, in occasione del tradizionale discorso commemorativo dell’insurrezione di Lhasa del 1959, il settantacinquenne Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama del Tibet, aveva fatto lo storico annuncio: “Fin dagli anni Sessanta ho ripetutamente affermato che i tibetani hanno bisogno di un leader politico liberamente eletto a cui io possa devolvere il potere. Adesso è giunto il momento di mettere tutto questo in pratica”. Le agenzie di stampa di tutto il mondo hanno immediatamente diffuso la notizia: “Il Dalai Lama rinuncia al potere politico”. Tra i tibetani, dentro e fuori il Tibet, in molti si sono sentiti improvvisamente orfani. Il Governo in esilio ha cercato di far ritornare il Dalai Lama sui suoi passi, ma non c’è stato niente da fare. Tenzin Gyatso è apparso irremovibile. Ha chiesto che la “Carta dei tibetani in esilio”, una sorta di Costituzione dei rifugiati, venisse modificata. L’espressione “Ganden Phodrang”, la dicitura ufficiale con cui veniva chiamato il sistema di governo dei Dalai Lama, dovrà d’ora in avanti essere cambiata in “Amministrazione centrale tibetana in esilio”. Il Tibet scriveva così una nuova pagina della sua storia millenaria.

Nel corso di un’affollata conferenza stampa il Dalai Lama ha spiegato i motivi della sua scelta. Con la solita ironia, Tenzin Gyatso ha detto: “Non volevo fare la stessa fine di Mubarak”. Ha poi ricordato di essere al potere fin dal 1950, da quando aveva solo 16 anni. Adesso era giunto il momento di abbandonare la leadership politica per dar vita a “un sistema di governo interamente democratico”. “Come XIV Dalai Lama del Tibet – ha detto – sono onorato di rinunciare volontariamente al potere politico implicito nell’istituzione del Ganden Phodrang iniziata nel lontano 1642 ai tempi del Grande Quinto (il V Dalai Lama)”. Tenzin Gyatso ha poi aggiunto che il Ganden Phodrang continuerà adesso solo come istituzione religiosa. “Il mio ruolo tornerà così a essere quello dei primi quattro Dalai Lama, un ruolo puramente spirituale”.

La rinuncia al potere da parte del Dalai Lama avrà forti ripercussioni politiche, sia nei rapporti tra il Governo tibetano in esilio e la Repubblica popolare cinese, sia all’interno della stessa comunità tibetana dentro e fuori il Tibet. E’ evidente che il Dalai Lama, rinunciando alla leadership politica, ha implicitamente ammesso il fallimento della sua scelta di compromesso con Pechino che ha chiamato “Via di Mezzo”. Più di venti anni di “dialogo” con la Cina non hanno portato a nessun risultato concreto. Il Dalai Lama si fa così da parte per permettere a una nuova classe politica tibetana di percorrere nuove strade e porsi nuovi obiettivi. Pechino aveva finora accettato un parziale dialogo con Dharamsala (foto sopra) limitandolo alla sola discussione sullo status del Dalai Lama nell’eventualità di un suo ritorno in Cina (e non in Tibet). Adesso il Partito comunista cinese si troverà a non avere più un interlocutore. Pechino, da sempre, ritiene infatti il Governo tibetano in esilio “illegale”. E’ improbabile che, con l’uscita di scena del Dalai Lama, la Cina possa ritenere proprio questo governo “illegale” un valido interlocutore.

Inizialmente, il nuovo governo in esilio dirà di voler perseguire gli stessi obiettivi enunciati dal Dalai Lama con la sua “Via di Mezzo”. Si tratterà di un formale tributo al vecchio leader tibetano che ha deciso di lasciare libero il campo. Ma, molto presto, la posizione politica dei tibetani in esilio diventerà inevitabilmente più radicale. Così, in un non lontano futuro, Pechino potrebbe trovarsi a rimpiangere il fatto di non aver voluto dialogare con l’attuale Dalai Lama. Il Tibetan Youth Congress (TYC) si è detto pronto ad assumersi maggiori responsabilità “per aiutare i tibetani a diventare autosufficienti”. Per capire cosa questo significhi, va ricordata la clausola dello statuto del TYC che recita: “Il militante del TYC si batterà per la totale indipendenza del Tibet anche a costo della propria vita”.

Quando, pochi giorni fa, l’intero parlamento tibetano ha provato a respingere la decisione presa dal Dalai Lama, il Tibetan Youth Congress, con una lettera inviata allo stesso parlamento in esilio, ha affermato che la decisione presa dal Dalai Lama andava accettata. Si trattava di una decisione “storica” che avrebbe permesso di “far evolvere positivamente la democrazia in Tibet”. Uno dei tre candidati nelle recenti elezioni per la carica di “kalon tripa” è stato definito da Pechino un “terrorista”. E questo perché, nel 1992, Lobsang Sangay aveva fatto parte dell’esecutivo del Tibetan Youth Congress. I cinesi, anche in un recente articolo apparso sul Quotidiano del popolo, hanno paragonato il TYC ad altre organizzazioni terroriste “come Al-Qaida, i terroristi ceceni e i separatisti dell’Est Turkistan”. Malgrado questa falsa propaganda cinese, il Tibetan Youth Congress, da anni, ha scelto per motivi etici e strategici la nonviolenza gandhiana come metodo di lotta per ottenere l’indipendenza del proprio paese.

Adesso, il rischio più grave provocato dall’uscita dalla scena politica del Dalai Lama è rappresentato da una possibile frattura all’interno del popolo tibetano, innanzitutto tra i tibetani che vivono in esilio e quelli che abitano nel Paese delle Nevi. Nessun primo ministro eletto infatti potrà avere inizialmente lo stesso carisma del Dalai Lama e la sua stessa capacità di tenere unito il popolo tibetano. L’attuale Dalai Lama è stato un potente simbolo che ha saputo unificare il Tibet sia dal punto di vista religioso (le quattro scuole del buddhismo tibetano e gli appartenenti alla religione Bon) sia dal punto di vista geografico (le popolazioni originarie delle tre regioni tradizionali del Tibet: l’U-Tsang, il Kham e l’Amdo). E’ impensabile che sia il prossimo “kalon tripa” o un qualsiasi altro primo ministro di un immediato futuro ad assolvere questa funzione. Per ora il XIV Dalai Lama resterà la guida spirituale di tutti i tibetani. Ma Tenzin Gyatso ha 75 anni ed è inevitabile pensare a cosa accadrà dopo di lui. Il problema della successione alla guida spirituale del Tibet si pone così fin da subito in tutta la sua drammaticità. I cinesi, da tempo, ci stanno pensando.

Nel buddhismo tibetano le tre più alte cariche sono rappresentate, in ordine di importanza decrescente, dal Dalai Lama, dal Panchen Lama e dal Karmapa. I primi due appartengono alla scuola Gelug. Il terzo a quella Kagyu. I cinesi hanno cercato di assumere il controllo di tutte tre queste istituzioni. Con l’“Ordinanza N°5” dell’ottobre 2007 il Partito comunista cinese si è arrogato il diritto di individuare tutti i futuri “Buddha viventi”. All’ipotesi che il Dalai Lama possa “nominare” il suo successore invece di “reincarnarsi”, le autorità cinesi hanno risposto pochi giorni fa per bocca di Padma Choling, il governatore della Regione Autonoma del Tibet che ha detto: “Dobbiamo rispettare le istituzioni storiche e i rituali religiosi del buddhismo tibetano. Nessuno può abolire una istituzione basata sulla reincarnazione. I Dalai Lama e i Panchen Lama si sono reincarnati per centinaia di anni”. Dunque, alla morte dell’attuale Dalai Lama, è certo che i cinesi individueranno una “loro” reincarnazione. La decisione del Dalai Lama di devolvere l’intero potere politico a un leader liberamente eletto serve così anche a privare il futuro reincarnato scelto da Pechino di ogni potere politico invalidandone qualsiasi “accordo” che eventualmente si accingesse a firmare sulla falsariga del “Trattato in diciassette punti” siglato nel maggio del 1951.

In un non lontano futuro ci saranno così due Dalai Lama, uno individuato dai cinesi, l’altro dai monaci tibetani in esilio. La cosa è già avvenuta nel caso del Panchen Lama. Choekyi Gyaltsen, il X Panchen Lama, morì in circostanze misteriose nel suo monastero di Tashilunpo, in Tibet, il 28 gennaio 1989. Il 14 maggio 1995 il Dalai Lama annunciò che Gedhun Choekyi Nyima, un bambino di 6 anni residente nel distretto di Lhari in Tibet, era stato riconosciuto come l’XI Panchen Lama. Immediatamente dopo l’annuncio, i cinesi fecero sparire il bambino assieme a tutta la sua famiglia. Gedhun Choekyi Nyima diventò così “il prigioniero politico più piccolo del mondo”. A novembre di quello stesso anno, nel Jokhang di Lhasa, con una cerimonia in pompa magna e alla presenza di alti funzionari del Partito comunista, i cinesi scelsero un loro Panchen Lama, un bambino di nome Gyaltsen Norbu.

Per completare il grande disegno di Pechino di porre l’intera gerarchia spirituale tibetana sotto il controllo diretto del Partito comunista cinese, restava il Karmapa. In questo caso, per i cinesi, le cose erano state relativamente semplici. Il XVI Karmapa fu Rangjung Rigpe Dorje. Nel 1959 fuggì dal Tibet assieme al Dalai Lama. Trovò rifugio a Rumtek, a pochi chilometri da Gantok, la capitale del Sikkim. Il XVI Karmapa fondò più di 430 centri buddhisti in tutto il mondo. Quando il 5 novembre 1981 morì di cancro a Zion, nell’Illinois, lasciò proprietà per un miliardo e 200 milioni di dollari. L’individuazione della nuova reincarnazione del Karmapa venne fatta da Tai Situ Rinpoche, uno dei quattro reggenti dell’ordine Kagyu. Il bambino prescelto era nato nel 1985 in una famiglia di nomadi della regione tibetana del Lhathok. Gli venne dato il nome di Ogyen Trinley Dorje. Il Dalai Lama confermò l’identificazione. Il 27 giugno 1992 anche il governo cinese riconobbe ufficialmente il XVII Karmapa. Il piccolo lama venne portato nel monastero di Tsurphu, in Tibet, la storica sede di tutti i Karmapa precedenti. Per la prima volta un “tulku”, un lama reincarnato, era stato riconosciuto contemporaneamente sia da Dharamsala sia da Pechino. Ma, all’interno della scuola Kagyu, c’erano forti contrasti. Un altro dei quattro reggenti, Shamar Rinpoche, mirava a ereditare le fortune accumulate dal XVI Karmapa e ammassate nel monastero di Rumtek, in Sikkim. Nominò un “suo” Karmapa alternativo a cui diede il nome di Trinley Thaye Dorje. Le armi di Shamar Rinpoche risultarono però spuntate. Grazie alla “Preziosa lettera” di riconoscimento del Dalai Lama, il vero Karmapa era ormai Ogyen Trinley Dorje e, come tale, era venerato da milioni di tibetani.

Il Karmapa, il “Buddha vivente” come lo chiamavano le autorità di Pechino, cresceva nel monastero di Tsurphu sotto l’attenta sorveglianza del Partito comunista cinese. Per due volte il giovane si recò a Pechino dove incontrò il presidente Jiang Zemin. La rivista China’s Tibet, in occasione della sua seconda visita, scrisse che il giovane Buddha vivente aveva pregato sulla tomba di Mao Zedong e che si sarebbe impegnato “nella costruzione di un Tibet prospero e unito e avrebbe sempre amato la Cina”. Ma, per i cinesi, ci fu uno spiacevole imprevisto. La notte di martedì 28 dicembre 1999, il quattordicenne Karmapa fuggì dal suo monastero. La fuga lo portò ad attraversare l’intero Tibet, il Nepal e tutta l’India del Nord. La mattina del 5 gennaio 2000 il giovane lama si presentò a McLeod Ganj (Dharamsala alta) al cospetto di uno stupito Dalai Lama. Da allora Ogyen Trinley Dorje vive nel monastero tantrico di Gyuto, a Sidhbari, non lontano da Dharamsala. Il Dalai Lama si è occupato personalmente della sua istruzione. Oggi il XVII Karmapa è l’unico lama che, per prestigio e numero di fedeli, può aspirare a diventare la guida spirituale di milioni di tibetani quando l’attuale Dalai Lama avrà lasciato definitivamente questo mondo.

Verso la fine del mese di gennaio di quest’anno il Karmapa si è trovato suo malgrado al centro di uno scandalo di grandi proporzioni. Due membri del suo staff sono stati sorpresi dalla polizia dello Stato indiano dell’Himachal Pradesh, in un automobile piena di denaro contante. La polizia ha sospettato che quei soldi servissero per l’acquisto illegale (“benami”e cioè tramite un prestanome) di un terreno nei pressi del monastero di Gyuto, dove il Karmapa è ospitato. Il giorno seguente gli stessi poliziotti hanno fatto irruzione nell’appartamento del giovane Karmapa. Hanno trovato alcuni bauli di metallo contenenti denaro proveniente da 25 diversi paesi, per un equivalente di un milione e ottocentomila dollari. Di questi, l’equivalente di 166 mila dollari, erano yuan, la valuta in circolazione nella Repubblica popolare cinese. “Monaco o agente cinese?” titolò subito, in un editoriale, il quotidiano The Tribune. Tutti i media indiani fecero propria questa ghiotta “spy story”. “Ci troviamo di fronte all’ennesima scaltra macchinazione della Cina per assicurarsi il controllo delle zone di confine?”, si chiesero molti commentatori politici indiani. Improvvisamente il Karmapa, fino ad allora un rispettato leader religioso, diventò “una spia”, “un agente segreto”, “una talpa cinese”. La polizia dell’Himachal Pradesh e anonimi funzionari dei servizi segreti indiani continuarono ad alimentare questi sospetti. Si disse che nel monastero del Karmapa erano state trovate delle sim-card cinesi. A nulla valsero le successive smentite. Una televisione privata mostrò una ricostruzione fantasiosa degli scantinati del monastero di Gyuto. Vi si vedevano decine di monaci con le vesti color amaranto che, di fronte a computer e schermi televisivi, passavano informazioni segrete direttamente a Pechino. I giornalisti stranieri, immaginandosi per un giorno altrettanti piccoli Le Carrè, si gettarono a capofitto in questo inesistente “intrigo himalayano”. I soldi trovati nelle casse del Karmapa altro non erano che le donazioni fatte dai fedeli nel corso degli anni e ancora non depositati in qualche banca indiana.

Prem Kumar Dhumal, il Chief Minister dell’Himachal Pradesh, (lo Stato indiano dove si trova Dharamsala, la sede del Governo tibetano in esilio), approfittò dello “scandalo” per lanciare un perentorio: “Tibetans should just go back”, i tibetani devono semplicemente tornarsene a casa. Settantatre terreni su cui sorgono in Himachal Pradesh tutti gli edifici pubblici tibetani e acquistati “irregolarmente” nel corso di mezzo secolo, divennero d’ufficio proprietà del governo dello Stato. I tibetani dovranno adesso pagare il 10 per cento del valore di mercato di questi terreni per poterli riavere in affitto a lunga scadenza. Il Chief Minister prese anche in considerazione l’ipotesi di imporre un divieto d’ingresso in Himachal Pradesh a nuovi rifugiati. La situazione per i tibetani si stava facendo drammatica. Tutti si strinsero allora attorno al loro Karmapa. Tenzin Tsundue, un noto scrittore e attivista tibetano, accusò esplicitamente Shamar Rinpoche, il protettore del Karmapa “alternativo”, di manovrare i servizi segreti indiani. Scrisse: “Molti tibetani pensano che quanto è accaduto sia stato un semplice caso di cattiva amministrazione. Invece, un partito rivale guidato da Shamar Rinpoche, alimenta le accuse più gravi per indebolire lo status legale del Karmapa in India e ottenere così che il monastero di Rumtek, in Sikkim, finisca nelle mani del suo candidato. Ma, per i tibetani, Ogyen Trinley Dorje è il solo Karmapa”. Una delegazione di leader buddhisti provenienti dal Ladakh, dal Sikkim e dall’Arunachal Pradesh si fece ricevere da Sonia Gandhi. Protestavano contro le false accuse rivolte al Karmapa. Sonia fece sapere che contro il Karmapa non c’era, da parte del governo centrale, nessuna accusa e nessun sospetto. Consigliò solo che il giovane lama impiegasse qualche contabile professionista per registrare regolarmente il denaro che riceveva come donazione dai suoi fedeli.

Passata la tempesta, il Karmapa è tornato ai suoi studi del Dharma, l’insegnamento del Buddha. Tradizionalmente i Karmapa non hanno mai svolto un ruolo politico all’interno della società tibetana. Il Karmapa si manifesta in questo mondo per alleviare le sofferenze delle persone. Distribuisce elemosine, cura i malati, predica alla gente, costruisce monasteri. Quando l’attuale Dalai Lama non ci sarà più, il XVII Karmapa non ne potrà diventare ufficialmente il “successore”. Non appartiene infatti alla scuola Gelug, la tradizione del buddhismo tibetano da cui provengono tutti i Dalai Lama. Tuttavia Ogyen Trinley Dorje avrà tutti i requisiti per diventare la guida spirituale di milioni di tibetani, in attesa che l’eventuale nuova reincarnazione del Dalai Lama diventi un adulto. Con la definitiva uscita di scena del Dalai Lama, la questione tibetana tenderà inevitabilmente a radicalizzarsi. In questa evenienza, anche l’attuale Karmapa sarà probabilmente costretto ad assumere una più esplicita posizione politica. Del resto, quando ancora quattordicenne arrivò in India dopo la sua rocambolesca fuga, in una delle prime udienze pubbliche gli bastarono poche parole per far capire il suo pensiero. Si limitò a dire: “Per poter praticare il Dharma è necessario essere liberi”.


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