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Un Uccello, un Gatto e 4 Mosche: la Strana Fattoria di Dario Argento

Creato il 09 febbraio 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Un Uccello, un Gatto e 4 Mosche: la Strana Fattoria di Dario Argento

Per confutare la precoce senescenza artistica del loro idolo i fan di Dario Argento potrebbero ricorrere a una delle più vetuste leggende metropolitane. Secondo tale leggenda, il regista italiano soffriva silenziosamente di una terribile malattia degenerativa (manifestatasi fino agli ambivalenti Trauma e La sindrome di Stendhal), è deceduto nel 1997 e durante gli ultimi diciotto anni è stato il suo sulfureo sosia a spendersi con prodigalità nell'aneddotistica da manuale cinematografico e nella maratona Rai 100 Pallottole d'Argento.

Accantonando la burla, è indubbio che la carriera dell'autore romano sia ormai spaccata a metà tra un glorioso passato e un presente zoppicante in cui tenta da anni di entrare nella modernità horror senza riuscire a capire se farlo da maestro o da collega. Come omaggio ad un cineasta comunque fondamentale per la nostra tradizione, qui parleremo del fenomenale biennio in cui il buon Dario attirò le attenzioni di pubblico e addetti ai lavori su di sé. Stiamo parlando più specificatamente del 1970-71 e dei suoi esordi sugli schermi con la cosiddetta Trilogia degli animali. In ordine cronologico essa è composta da: L'uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio.

Tentiamo di stilare un bilancio complessivo del trittico. Il trentenne Dario Argento dopo qualche esperienza come critico cinematografico e sceneggiatore comincia la sua filmografia con un preciso intento: rinnovare il genere del thriller contrassegnandolo con la propria esuberanza visiva. Sceglie di riallacciarsi quindi alla recente ma fortunata tradizione del giallo all'italiana (aperta da Mario Bava con La ragazza che sapeva troppo e codificata sempre da lui con Sei donne per l'assassino) confermandone alcune ascendenze e spaziando su altre. In tutte e tre le pellicole Argento si impone una rigidezza di scrittura inusuale nei suoi predecessori e anche nella sua stessa futura filmografia.

I tre plot sono stesi obbedendo alle leggi iper-razionali del genere, anche a costo di sfociare nella tiepidezza medico/scientifica de Il gatto a nove code. Questo proposito rimane però nelle intenzioni di sceneggiatura, visto che a Dario Argento certe convenzioni interessano e altre no. Ad esempio tutti e tre i film falliscono, a livello deduttivo, nella risoluzione finale. Essi non forniscono quella catarsi intellettiva tipica della mystery fiction alla Agatha Christie attraverso le spiegazioni-monstre dei numerosi indizi sparsi durante la vicenda. Come ad un contadino pagato a cottimo, al regista italiano piace, infatti, più seminare che raccogliere. L'ordito complessivo svela sin dalla prima analisi da semplice spettatore smagliature narrative se non veri e propri buchi.

Nelle tre opere la fascinazione per la figura del killer è così forte che i film continuano ad esistere fin quando gli assassini hanno campo libero per le loro delittuose azioni. Appena essi vengono scoperti Argento trancia la vicenda con la loro morte violenta non preoccupandosi mai di raccontare il dopo degli investigatori. Anche su quest'ultimi possiamo fare un paio di annotazioni. Sia Sam che Arnò-Giordani che Roberto si trovano catapultati casualmente nel mezzo di storie sanguinolente.

La figurativizzazione semiotica di questo assunto teorico è esemplarmente racchiusa nella sequenza iniziale de L'uccello dalle piume di cristallo. Mentre Sam Dalmas passeggia tranquillamente scorge un tentativo di omicidio. Si avvicina alla galleria d'arte sede del misfatto ma il killer lo intrappola in un angusto spazio incuneato tra una doppia vetrata. Assiste così alla sofferenza agonizzante della vittima a cui non può portare soccorso e dalla quale il suo sguardo non può esimersi.

Questo è l'annuncio della condizione spettatoriale di fronte al dispiegarsi dell'intera Trilogia degli animali. Argento esaspera i punti di vista e tramite la sua regia ci rende contemporaneamente pubblico e attori, soggetti e oggetti. Così le prime soggettive della sua filmografia sono rivolte contemporaneamente e quasi schizofrenicamente sia alle vittime che ai carnefici. Di conseguenza ne L'uccello dalle piume di cristallo fumiamo la sigaretta del killer, mentre in 4 mosche di velluto grigio quella del suo prossimo bersaglio. Questa frammentazione partecipativa è acuita da un'inusuale attenzione registica verso la figura dell'omicida seriale. Avvolto in guanti di pelle ed eleganti soprabiti, fino al suo svelamento egli sembra muoversi in un'aura di potenza soprannaturale.

Lo vediamo commettere i suoi delitti silenziosamente e come un'ombra malefica sgusciare via senza dare segni della sua fallacia umana. Tranne difatti che ne Il gatto a nove code dove Casoni viene ferito prima dell'inseguimento finale sui tetti, è solo l'omonimo indizio rivelatore a farne crollare il perfetto impianto criminoso. Un'altra corrente carsica che percorre uniformemente questa trilogia è la padronanza dei mezzi cinematografici da parte di Dario Argento. Innanzitutto il polso sicuro e immaginifico della sua regia pieno di virtuosi carrelli, ardite soggettive, frame rivelatori, inquadrature sorprendenti (l'interno di una chitarra nella jam iniziale di 4 mosche di velluto grigio), cambi di focale, arditi stacchi di montaggio tra un totale di un ambiente e il dettaglio a tutto schermo dell'occhio dell'assassino ( Il gatto a nove code).

Inoltre, la musica comincia ad avere un ruolo importante all'interno della costruzione delle scene più paurose. La colonna sonora non è soltanto didascalica come nei film classici ma funziona da contrappunto spiazzante (si ascoltino i pezzi progressive o gli assolo di batteria di Ennio Morricone in 4 mosche di velluto grigio). Per ultimo vogliamo rimarcare la qualità che forse più di ogni altra Argento ha smarrito per strada nel corso della sua lunga carriera. Ci riferiamo all'attenzione di scrittura verso i personaggi che seppur privi di particolari connotazioni psicologiche risultano credibili sullo schermo. Ecco, forse quello che manca più all'ultimo cinema argentiano è la simpatia di quel gran burlone di Dio(mede)!


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