“Un viaggio ad Assisi”, di Marco Grassano

Creato il 25 luglio 2011 da Fabry2010

Testo e foto di Marco Grassano, da Alibi Online (qua e qua), dove sono disponibili anche altre immagini.

“Per molti monti ombrosi e vallate piene di grida

e pianure fiorite spinse la mandria Ermes glorioso…”

(Inno omerico ad Ermes)

Ho avuto l’opportunità di trascorrere, con la famiglia, qualche giorno ad Assisi. Ma non voglio raccontare qui l’aspetto monumentale o artistico della città: altri lo hanno fatto prima e meglio di me. Quel che cercherò di fare è, semmai, rendere il particolare rapporto con l’ambiente, con quell’insieme di spazi, luce e colori che ha ispirato a San Francesco il Cantico delle Creature (diciamo la verità: difficilmente avrebbe potuto scriverlo nella mia nativa Alessandria!).

Arriviamo il 17 giugno. La luce è molto intensa, persino abbagliante (una luminosità provenzale, mi viene in mente, che Francesco Biamonti avrebbe definito “luce romanza”) nella frazione Rivotorto, dove ci alloggiamo in una vecchia magione eccellentemente recuperata, “La Padronale del Rivo” (stanza 206, “Città di Castello”), di fronte alla chiesa del Sacro Tugurio. La prima visita la facciamo proprio a questo luogo di culto, costruito (e quindi ricostruito, in stile neogotico, a fine Ottocento, dopo uno dei terremoti che hanno afflitto la zona) attorno alla casupola di pietra (il “Sacro Tugurio”, appunto) dove Francesco si installò con i suoi seguaci iniziali prima di trasferirsi alla Porziuncola (d’altronde, le terre di Rivotorto appartenevano a suo padre). Impressiona un po’ il sasso esiguo sul quale il santo dormiva, e appaiono una beffa postuma, rispetto all’abitudine (ricordata da un cartellino) di incidere nelle travi il nome dei frati per indicarne il posto, le scritte a pennarello – ricordo della presenza di coppiette – tracciate sulle travi stesse.

Attraverso stradine che filano dritte lungo campi di grano duro pronti per essere mietuti, ci avviciniamo alla città di pietra color panna e rosa, arrampicata – a costituire un fronte allungato di case sovrapposte – su un pendio che culmina con la Rocca Maggiore. Infiliamo la macchina nel parcheggio multilivellare del Moiano, che emerge verso la città in una sola torretta (per l’ascensore e le scale) lasciata arrugginire ad arte con lo scopo di garantirle un colore naturale. Lo collega all’abitato (o meglio, alle stradine dalle quali, rasentando le antiche mura perimetrali e un lavatoio abbandonato, si accede rapidamente al centro) una passerella architettonicamente ben inserita, che passa sopra un giardino di cespugli mediterranei. Visitiamo la Basilica di Santa Chiara, con la tomba (e la mummia) della Santa nella cripta (cui si scende, come un po’ ovunque qui, per una scala diversa da quella attraverso la quale si esce); poi, dal sagrato ci muoviamo verso la Piazza del Comune, col Tempio di Minerva, la fontana e le panchine popolate di anziani. Molti negozi turistici e bar da ambo i lati. Dopo il devastante terremoto degli anni Novanta, la città appare perfettamente ripristinata: nitida, precisa, pulita. Tra il Comune e la Chiesa Nuova, un lucernario aperto nella pavimentazione consente di dare un’occhiata ai resti del Foro Romano. Scendiamo tra vie e piazzette verso Sant’Antonio, Santa Maria Maggiore, Sant’Apollinare. Ogni tanto, un affresco illumina una facciata, mostrando di essere l’espressione artistica anticamente più comune – almeno per chi se la poteva permettere. In alcuni punti, lavori in corso.

Ceniamo alla Padronale (che offre piatti stimolanti, come la porchetta al forno insaporita da un trito di erbe aromatiche, i bocconcini di pasta di pane fritti con sopra pomodoro, basilico e pecorino, le frittatine, la panzanella alla romana…), in una veranda aperta sull’esterno. Il giardino è molto curato: passaggi in cotto roseo delimitano aiuole con diverse varietà di rosmarino e di lavanda, e con altri cespi argentei assai profumati, dei quali non riusciamo ad individuare la specie (il gestore ce li indica come rosmarini non commestibili, ma credo si sbagli). Il vento increspa l’acqua della piscina e rovescia le foglie dei platani del viale in un verde più tenero. Le nubi corrono veloci allungandosi nel cielo. Il monte Subasio somiglia vagamente al Giarolo ingrandito (o piuttosto, visto da vicino), con la forma triangolare e i prati di vetta. È cosparso di abitati e singole case perfettamente individuabili, che si richiamano a vicenda come echi visivi. L’aria è abbastanza tersa, anche se nella distanza le alture si sfumano di azzurro. Man mano che il crepuscolo si addensa, i caseggiati si trasformano in punti luminosi, stelle che istoriano il cielo scuro della montagna. Di fianco alla chiesa iniziano a mietere il grano, con una grande macchina rossa.

A poche decine di metri lungo il viale, oltre un cancello sorretto da grandi pilastri, si allineano le lapidi del cimitero di guerra che ospita 949 soldati, inglesi e del Commonwealth, caduti sul nostro suolo tra la primavera e l’autunno del 1944. Le età incise commuovono: 20, 21, 22, 35, 37 anni. Tutte le lapidi hanno il lato superiore leggermente curvo, tranne due, perfettamente squadrate. Non si tratta di un errore, ma dell’indicazione che queste sono dedicate a caduti italiani: Giulio Terzi di Sant’Agata, da Bergamo, di anni 28, e Giuseppe Primiceri da Matino (LE), di anni 30, la prima; Attilio Pelosi, da Monterotondo, di anni 19, e Claudio Fiorentini, da Roma, di anni 18, la seconda; tutti ufficiali partigiani di collegamento caduti il 16 agosto 1944. Ne riporto i nomi come personale tributo di memoria – per quel che può valere – al loro coraggio.

Stavolta lasciamo la macchina al parcheggio Giovanni Paolo II. La Basilica di San Francesco (inferiore e superiore) è facilmente raggiungibile anche attraverso i lavori di smontaggio di una grande struttura per concerti. Tutti scendono nella cripta a visitare la tomba del Patrono, infilando foto tessera attraverso le strette maglie della grata di protezione, ma praticamente nessuno fa caso ai frati sepolti attorno (mi ricordo di Rufino – da non confondersi col santo omonimo – ma gli altri non li saprei ridire). Bisognerebbe riscattare in qualche modo la loro memoria. Gli affreschi, perfettamente restaurati, creano un senso di stordimento, per numero ed intensità. In alcune teche di una cappella ridipinta da artisti contemporanei, sono esposte reliquie del Santo (un saio rattoppato, qualche manoscritto…). Percorriamo via San Francesco (curiosamente e fastidiosamente aperta al traffico) assieme ad un gruppo di ragazzini in gita e torniamo da via Fontefredda, per visitare la chiesa di San Pietro e fotografare la sua angusta cripta. Anche questa parte della città è stata ricostruita in modo netto e ordinato.

Il viaggio a Santa Maria degli Angeli è breve e agevole: l’enorme costruzione costituisce un punto di riferimento individuabile ovunque. Di fianco alla basilica, una pavimentazione di mattoni “sponsorizzati” ognuno da un cittadino. Uno dei nomi – di un signore valenzano – mi è noto. La Porziuncola e la vicina Cappella del Trapasso (dove San Francesco è morto) sono qui contenute come modellini in un museo, ma è proprio il contrasto tra la grandezza dell’involucro e la loro minuscola semplicità a tenere viva la forza della suggestione che ancora esercitano. Il percorso interno ci porta ad alcuni angoli emblematici del francescanesimo: il giardino delle rose, dove una statua ricorda la “conversione” dell’agnello (che belava accompagnando le preghiere e i canti dei monaci), o la cappella delle rose, sotto la quale, nell’angusto spazio circoscritto da un bassissimo arco che sostiene il pavimento, il santo dormiva.
Alla chiesa del Sacro Tugurio stanno celebrando un matrimonio (annunciato dalle infiocchettature già notate in mattinata), e la porta principale si apre brevemente per lasciar uscire gli sposi, consentendo la vista della venerabile casupola anche dall’esterno. Gli invitati iniziano a lanciare riso e a sparare petardi. In quel momento transita un corteo di moto d’epoca, tra le quali una dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale (montata da un soldato in divisa corrispondente, con tanto di elmetto avvolto in una rete mimetica); la moto inizia a scoppiettare, mescolando le sue detonazioni a quelle esplose per i festeggiamenti nuziali.

L’Eremo dei Carcerati si trova a 830 metri di altitudine, un po’ come Lunassi (e in effetti i suoi verdissimi e ombrosi sentieri interni ricordano molto quello della fontana del borgo valcuronese). Il bosco montano è però a lecceto, non a faggeta come in Val Curone. Lasciamo la macchina nell’apposita piazzola, profumata dalle ginestre che la circondano di spruzzi di un giallo abbacinante. All’interno delle mura, e fra gli alberi, spazi di preghiera ricavati un po’ dovunque, semplicemente posizionando alcune panche di rozzo legno di fronte a un altrettanto rozzo tavolo che funge da altare. Contro una roccia, le statue in bronzo di San Francesco e di due confratelli rivolti verso l’alto ad osservare e misurare, accostando pollice e indice, “sora Luna e le Stelle” che il Signore ha “formate in cielo clarite e preziose e belle”. Il centro dell’eremo è però costituito da alcuni locali strettissimi, cui si accede da porticine alte un metro e larghe in proporzione (come nel Santo Sepolcro descritto da Robert Byron a pagina 43 de La via per l’Oxiana (Adelphi), dove non a caso compaiono “tre francescani inginocchiati”). In uno di questi bugigattoli, si vede una lastra di pietra, cintata da un cordone: viene da pensare che fosse il giaciglio del Santo, durante i soggiorni quassù.

Da qui, a piedi, decidiamo di salire sul monte Subasio, 1125 metri. Proseguiamo lungo la provinciale (praticamente deserta) fino all’imbocco del sentiero CAI numero 60, “Sassopiano”. Ancora ginestre. Fiori di cisto rosa e di cisto bianco. Strada fiancheggiata da pini altissimi, certamente piantumati, visto che crescono ad aree omogenee. Pini anche durante la salita, finché la vegetazione inizia gradualmente a diradarsi e a farsi spontanea. Arriviamo ai roccioni e ai prati di vetta che li sovrastano. Diversi cavalli “ammusano” stretti attorno alla croce e al mucchietto di sassi dove termina il sentiero, probabilmente per proteggersi reciprocamente dal vento freddo che li investe da sud-ovest. Un puledrino nato da pochissimo si riposa sdraiato sull’erba irta di pietre. Lungo la recinzione del pascolo, due pinetti striminziti si contorcono piegati dal vento, che si direbbe soffi sempre nella stessa direzione. Lontano sulla montagna altri cavalli, qualche albero sparso e ombre di nuvole in movimento. La visione della vallata sottostante, da qui, è incantevole: si domina la minuta geometria degli appezzamenti, i colori diversi delle coltivazioni, i filari di alberi e le siepi a confine, gli edifici, le strade orlate di verde. Viene in mente la scena del film La fine è il mio inizio nella quale il personaggio di Tiziano Terzani malato viene condotto per l’ultima volta, dal figlio Folco, su una vetta appenninica, e da lì può contemplare a volontà l’ampissimo respiro del paesaggio, come da un piccolo Himalaya italiano. Con un potente zoom riusciamo a fotografare la chiesa del Tugurio e la limitrofa Padronale del Rivo: “casa nostra”.

Anche San Francesco, a dispetto del rigore e della frugalità che si autoimponeva, amava la contemplazione della Natura e del paesaggio: lo si capisce salendo al santuario di San Damiano, collocato su un panoramico pendio pieno di ulivi, di cipressi, di cespugli profumati e policromi. Qui compose il Cantico delle Creature, e qui, in questa ricchezza di luce e di sfumature vegetali, si comprendono pienamente versi come “Laudato sie, mi Signore, cum tutte le tue creature, specialmente messer lo frate Sole, lo quale è iorno, e allumini noi per lui, ed è bello e radiante con grande splendore: di te, Altissimo, porta significazione” oppure “Laudato si, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sostenta e governa, e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba”. Belle le strutture in pietra, bello il luminoso chiostro ravvivato da chiazze di gerani rossi, toccante, in uno stanzone, l’angolo nel quale, secondo quanto viene indicato, è morta Santa Chiara.

Arriviamo infine alla Rocca Maggiore, che dai suoi 490 metri sul livello del mare sovrasta a picco le vie cittadine e offre scorci delle esigue vallette che si incuneano, a nord del borgo, nelle pieghe tra un’altura e l’altra: “lenti” coltivate in mezzo a boschi incolti. All’interno del bastione, raccolte di armi cavalleresche e ricostruzioni di scene medievali mutuate da dipinti d’epoca, oltre ad un buio e lungo camminamento fortificato che si apre in rade feritoie e a un percorso superiore dal quale si scorgono orti e uliveti digradare verso la basilica di San Francesco.

Scendiamo a visitare la cattedrale di San Rufino “vescovo e martire”, con un bel coro ligneo e una disciplinata architettura romanica (qui furono battezzati entrambi i santi locali). Lungo i giardini delle case private (su una delle quali c’è scritto “Archivio Cesare Vivaldi”, e mi sovviene qualche vaga memoria di traduzioni dal latino), si avverte un forte odore di resina scaldata dal sole. Anche gli edifici nuovi, come il garage a fianco del Convitto Nazionale Principe di Napoli, sono ricoperti esternamente della pietra tradizionale, per renderli omogenei al resto delle costruzioni. Con ogni probabilità, in obbedienza ai vincoli posti (fortunatamente) dall’UNESCO per mantenere Assisi nell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità…



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