Si tratta di una strana passione che ho sviluppato, forse già presente in me dalla mia nascita. Una volta mia madre, a seguito delle estenuanti pressioni cui la sottoposi, mi raccontò della reazione che ebbi alla vista della prima tartaruga; quindi non ricordo esattamente la vicenda, ma stando a ciò che dice lei quella fu la prima volta che manifestai al mondo tutta la mia indole. Appena vidi quella curiosa creatura pare che contorsi il viso in modo innaturale, per poi avvicinarmi gatton gattoni, di soppiatto a lei, tanto da restare muso contro muso, o meglio muso contro quell’obbrobrio di uncino, e attesi per un buon quarto d’ora che la timidezza dell’animale svanisse, permettendole di tirare fuori nuovamente il capo e il collo. Mamma racconta che a quel punto allungai la mia manina e afferrai con tutta la forza di cui ero capace quell’elemento oblungo; infine, con uno scatto, non esitai a storcerlo e stiracchiarlo. Allora i miei muscoli non erano ancora ben sviluppati e la tartaruga, grazie anche all’intervento di mia madre che non riusciva a capire cosa stesse succedendo, fu capace di salvarsi; cosa che non avvenne mai più, devo dire con una punta d’orgoglio, per l’infinità di rettili della stessa specie che da quel giorno in poi mi capitarono sottotiro.
Tutta la mia vita gira attorno a questo; è una specie di voto, di passione, di hobby, chiamatelo come vi pare a seconda delle vostre impressioni, ma ve ne prego, non venite a chiedermi per quale motivo, o cosa stia alla base di questo modo di agire! Comunque, nel caso per voi fosse impossibile tenervi dentro questa domanda, posso rispondervi che io amo seviziare le tartarughe nella stessa misura in cui Michelangelo amava dipingere, o Kant filosofeggiare, o un filatelico andare alla ricerca dei francobolli più rari, o Poe andare alla ricerca del nero più nero che più di così non si può.
Detto questo, proseguo la narrazione dicendovi della mia infanzia e della mia gioventù, di come passarono felici, e se i miei coetanei si divertivano a inventare nuovi giochi o esercitavano la loro fantasia a escogitare i più astrusi modi per attrarre le prime ragazzine, io andavo in giro solo soletto per campagne, alla ricerca della tartaruga più rara. Non che la rarità o il pericolo di estinzione fossero elementi essenziali, bastava che l’essere avesse quattro zampe, un guscio e una squallida testa allungabile che all’occorrenza poteva ritrarre all’interno della solidità del guscio di prima. La gioia e il piacere di ingabbiare fra le spire d’un nodo scorsoio (al capo di una corda senza la quale mai ero capace di muovere un passo fuori casa) quel collo, era cosa inenarrabile della quale non potevo fare a meno per andare avanti! Ma il momento più succulento di tutto il rituale stava nella ricerca dell’albero migliore a ché potesse compiersi l’evento per il quale mi trovavo in quella data campagna; la ricerca del ramo migliore dove assicurare la corda e da dove, dopo essermi arrampicato in cima, lasciavo cadere con calma e con parsimonia (per godermi quei secondi fino all’ultima goccia) la tartaruga in tutto il suo peso.
Mi piaceva impiccarle insomma; non nego comunque d’averne inventato parecchi di metodi per seviziare quegli esseri: dall’annegamento (che richiedeva un pomeriggio intero), alla lapidazione, alla tortura vera e propria con la mutilazione degli arti, alle ricerche anatomiche che ogni tanto, preso da voglie di conoscenza scientifica, mi ritrovavo a compiere sotto il guscio appena estratto e gettato di lato. Tali pratiche, che molti definirebbero aberrazioni, ebbero modo di cessare a seguito di una scoperta che feci negli anni della mia prima maturità (non ricordo bene con precisione); in sostanza si trattò di una transizione da metodi di soppressione più piacevoli a metodi, diciamo così, più sbrigativi.
Mi capitò, sulla pagina di una rivista, di leggere qualcosa a proposito di alcune pietanze e, più in particolare, del brodo di tartaruga e delle capacità rigeneranti che lo stesso aveva verso tutti gli apparati del corpo umano. Senza dilungarmi troppo sui vari esperimenti culinari che alla fine mi portarono ad affinare la tecnica e a produrre un primo piatto estremamente gustoso, vi dico di come, giorno dopo giorno, la cosa ha assunto caratteristiche da vera e propria dipendenza, o vizio che dir si voglia; oramai non sono più capace di andare a letto senza la mia scodella di brodo giornaliera. Per forza di cose ogni tanto capita di saltare la necessaria incombenza, e il disagio provoca spasmi allo stomaco, nausea e talvolta giramenti di capo improvvisi che m’impediscono di dormire costringendomi ad alzarmi la notte e andare a caccia fin quando le esigenze del corpo non vengano soddisfatte fino in fondo. Tale stato di fatto ha per forza di cose introdotto un nuovo elemento di dovere; quindi non si tratta più del piacere che un tempo provavo alla vista di quegli esseri soggiogati, ora ne va proprio della mia salute! E’ chiaro come a questo punto non sia più possibile soffermarmi un intero pomeriggio in attesa che la sventurata tartaruga cessi di respirare fra i flutti di una fontana, o con la testa immersa nel fango di una pozzanghera; ora è necessario prendere più prede possibili e a tal proposito la corda e il nodo scorsoio che utilizzavo un tempo sono stati sostituiti da un fucile da caccia specifico per l’animale in questione. Non posso esimermi ora dal dirvi con quale rammarico mi veda costretto a raccontarvi questo passaggio, che sancisce in definitiva la mia caduta nella bestialità, il mio diventare adulto; il fucile è come netto spartiacque che determina il cambiamento di esigenze primarie: dal divertimento più estremo alla sopravvivenza nuda e cruda. Ciò che di più puro avevo si è trasformato, ma forse è solo il corso naturale delle cose e non posso sentirmi colpevole di fronte all’ineluttabilità del mondo, posso solo limitarmi ad assecondarlo e a constatare come si faccia sempre più difficile raccattare ciò di cui non posso fare a meno, basti pensare al preoccupante resoconto ecologico riguardo le popolazioni di rettili nella zona in cui vivo.
Per concludere, mi sento quindi in obbligo di fornirvi una rassicurazione nel caso vi capiti per chissà quale sfortuna, o magari perché incuriositi da questo bizzarro racconto, di ritrovarvi nel mio paese. Vi basteranno un paio di passeggiate per incappare in un uomo, senza dubbio alcuno, strano, che imbracciato un fucile sparacchia di qua e di là, senza motivazione apparente, magari su qualche sasso dimenticato sulla strada. Non abbiate paura, non spaventatevi, vi posso garantire l’assoluta innocuità dell’uomo in questione, non foss’altro perché quasi certamente si tratterà del sottoscritto.